CAPITOLO SESTO
La capanna migliore
Mi svegliai che il sole s’era già levato. A venti passi da me correvano le acque giallicce del fiume, ancora in piena. Mi ricordavano le acque di un altro fiume, sempre così bionde, e fa come rivedere un amico sul marciapiede di una città sconosciuta. Ma un amico che vi guardi con occhio distratto, non vi riconosca (o finga di non riconoscervi) e continui la sua strada trascinato da una folla implacabile.
Ero indolenzito per il lungo camminare del giorno precedente e, quando ricordai che cosa facevo in quel luogo, mi riprese una nera apatia. Ecco, quello era il primo ostacolo da superare per raggiungere Massaua. Avevo trascorso la notte guardando appunto il fiume, ad ascoltarne il mormorio profondo, unica voce questa tra le grida isteriche della boscaglia. Ora dovevo traversarlo a nuoto e non mi spaventava l’impresa, quanto la possibilità che un coccodrillo la facesse fallire. Ancor più mi spaventava la certezza che era ormai vano lottare contro un destino che m’aveva già colpito a morte e ora giuocava a propormi difficoltà accademiche. Ma forse non c’erano coccodrilli in quella parte del fiume poiché le sponde calavano ripide e i coccodrilli amano invece le spiagge segrete e il sole che le scalda.
Sentii che parlavo così ad alta voce con me stesso e mi spaventai: era il segno che avrei abbandonato la lotta se non avessi fatto qualcosa. Dovevo agire, farmi prendere sfinito, moribondo, ma prima tentare. Presi a insultarmi e stavolta il suono della mia voce mi confortò: approfittai della futile energia che mi riprendeva per scegliere un punto dove raggiungere l’acqua. Quando l’ebbi trovato, pensai ch’era meglio far prima colazione. Avevo con me scatole di formaggio e biscotti (ne avevo preso per il mancato imbarco), e quindi per qualche giorno non avrei sofferto la fame. Quanto alla sete, l’acqua del fiume, nel gavettino, non appariva fangosa. Feci il caffè, ne misi anche nella borraccia e mi svestii. Cercai attorno un vecchio tronco marcito e poco dopo avevo una piccola zattera di quella maledetta cartapesta per posarvi lo zaino. Legai la zattera al polso della mano sinistra con una corda, la spinsi in acqua e la seguii, cercando di non toccare il fondo coi piedi, per evitarmi il contatto viscido del fango: si trattava, ora, di lasciar fare alla corrente e di intervenire quando si fosse fatta più rapida, verso il centro del fiume.
Diventava sempre più difficile tenersi a galla, non avevo pensato che l’acqua dolce sorregge male; e forse ero stato imprudente a legarmi la zattera al polso, ma ormai dovevo uscirne. E ne sarei uscito a un solo patto: lasciando fare al fiume. Stando più tempo in acqua, aumentavo le probabilità a favore del coccodrillo, ma cercando di uscirne affannosamente, diminuivo troppo le probabilità di uscirne addirittura. Il ponte era distante appena due chilometri e vedevo le rive scorrere a una velocità che m’impensieriva. E la sponda opposta era ancora lontana. Di colpo vi fui portato sino a pochi metri, ma fui ripreso dalla corrente e ricondotto al centro del fiume.
Stavo meditando di abbandonare la zattera quando nel muovere i piedi, urtai in qualcosa di molliccio e di resistente, fors’anche di vivo. Gridando, cominciai a bere. Allora decisi furiosamente di salvarmi, annaspai con le mani e con i piedi, riuscendo solo a ingoiare acqua e a spaventarmi di più.
Un profondo rammarico di lasciare la vita in quel fiume mi invase e sopraffece la vergogna per la paura che stavo provando. Quando fui esausto, mi lasciai andare e l’acqua mi sommerse un attimo. Allora, sempre più deciso a salvarmi, senza gridare, potei abbrancarmi alla zattera, spinsi i piedi verso il fondo e toccai.
L’acqua mi arrivava al collo. Un momento dopo ero sulla riva e stetti lì nudo, a terra, vomitando la colazione. Rimasi sulla sabbia finché le formiche non cominciarono a infastidirmi. A valle vedevo il ponte (vi stava passando una colonna di autocarri), e quando cercai di riconoscere il punto dove ero entrato in acqua, mi accorsi che avevo percorso quasi mezzo chilometro. Mentre guardavo, la superficie del fiume si increspò a pochi metri dalla riva e l’acqua ebbe un cupo ribollimento.
Cominciai subito a rivestirmi.
Gli abiti erano ormai asciutti, anche i biglietti di banca erano asciutti, non avevo perduto nulla. Non avevo perduto nemmeno la volontà di vivere e di salvarmi, benché quel bagno mi avesse riportato alla realtà (avevo dovuto rifare la fasciatura alla mano). Ma che non avessi perduto gli abiti era un ottimo segno, perché nudo non avrei potuto proseguire oltre il primo comando. Mi ritornò persino il buonumore pensando in quali condizioni m’avrebbero visto arrivare per costituirmi.
Così ridendo, affrontai le prime gibbosità senza più sentire la stanchezza. Dovevo raggiungere la scorciatoia, seguirla sino in prossimità del ciglio e quindi tagliare pei campi, evitando la strada. Una volta sull’altopiano, avrei seguito la vecchia mulattiera abissina sino ad A.: un percorso di ottanta chilometri, da farsi in due giorni, evitando i posti di blocco, gli accampamenti e i villaggi. Non mi chiedevo ancora come l’avrei fatto, sapevo soltanto che dovevo farlo. Il bagno nel fiume mi aveva ridato l’ottimismo necessario, e ora anelavo a uscire da quella valle che ben conoscevo.
Il fiume era alle mie spalle, e la coscienza di aver superato il primo grave ostacolo, mi dava la certezza che avrei superato anche gli altri, sino a Massaua. Non avevo fretta, ma sapevo che se mi fossi fermato difficilmente avrei ripreso il cammino, e perciò ripetevo a me stesso che tutti gli ostacoli sono immaginari, immaginari come il coccodrillo che avevo sentito sotto il mio piede e che era invece soltanto un groviglio di erbe, o il cadavere di una bestia impigliato tra le erbe.
Raggiunsi il sentiero che conduceva alla scorciatoia proprio tra gli alberi dove avevamo trovato i due giovani impiccati: riconobbi le loro tombe, fatte da Johannes. Piegai verso la scorciatoia, che poco dopo raggiunsi. Qui il sentiero si faceva agevole e quelle frecce messe per burla dai soldati mi indicavano la via da seguire, stavolta senza pericolo di equivoci, e tra me riandavo le fasi di quella commedia durata già troppo. E il pensiero tornava ancora a Mariam, alla morte che ci eravamo data scambievolmente, ognuno seguendo un segreto disegno: io, quello di restar solo; lei, quello di trascinare me nella sua solitudine. “Peccato,” dissi “non aver sentito il parere del dottore su quest’ipotesi letteraria.” E risi, perché ormai potevo ridere di tutto.
“L’ingegnere e l’indigena, caro dottore, si uccidono scambievolmente e ciascuno col mezzo di cui dispone. L’ingegnere uccide da uomo pratico che non ha tempo per verificare un fenomeno già sufficientemente controllato dall’esperienza, e senza chiedersi quali conseguenze porterà il suo atto. L’indigena uccide come uccide la sua terra, con tutto il tempo, del quale ha un concetto così sbagliato.”
Mentre immaginavo la stanca risposta del dottore, un colpo di fucile ruppe il silenzio. Mi gettai verso la boscaglia, acquattandomi tra alcuni sassi, e attesi. Ma non udivo altri rumori e stavo per decidermi a proseguire, quando dal sentiero pervennero voci e quindi apparvero due soldati, diretti anch’essi verso l’altopiano. Avanzavano placidamente, già stanchi, parlando un dialetto che non conoscevo. Uno dei soldati aveva il fucile tra le mani e cercava con gli occhi un bersaglio che valesse la cartuccia, un uccello, uno scoiattolo; l’altro, più stanco, lo precedeva asciugandosi il sudore e incitandolo a far presto. Quando furono più vicini, vidi che erano carabinieri e avevano sparato per ingannare il silenzio di quel giro d’ispezione.
“Su, spicciati” disse quello che andava avanti.
L’altro indugiò ancora, poi prese la mira e sparò verso un cespuglio, ma senza colpire nulla, perché lo sentii borbottare. Quindi si allontanò in fretta.
Avrei atteso venti minuti prima di riprendere il cammino e guardai l’orologio. Dovevo dar loro questo vantaggio: in certi punti la scorciatoia si scopriva per larghi tratti e avrebbero potuto vedermi. Quando i venti minuti furono trascorsi, ripresi a camminare, tenendomi fuori del sentiero e salendovi soltanto quando il terreno si faceva troppo aspro. Incrociai la strada, nello stesso punto dove quattro mesi prima avevo atteso il camion, e un sordo rumore di motori mi annunciò che un’autocolonna stava salendo. Passarono gli autocarri, sollevando nuvole di polvere. Per fortuna non mi distrassi troppo e potei così vedere in tempo i due carabinieri che tornavano di corsa giù pel sentiero, decisi a saltare sul predellino di un camion, per arrivare prima. Mi passarono davanti a pochi passi, senza vedermi, e saltarono sul primo camion, ridendo.
Allora abbandonai la scorciatoia e puntai verso l’altopiano, che avrei raggiunto al riparo da ogni sorpresa. Vi giunsi dopo un paio di ore ma non potei proseguire, il sentiero portava proprio nel vecchio accampamento e non c’era modo di aggirarlo senza dare nell’occhio a qualche sentinella.
M’ero proposto di non farmi mai scorgere. Il dubbio di una sentinella, se palesato a un ufficiale, avrebbe significato per me la perdita del vantaggio iniziale. Dovevo, sì, respingere l’idea che tutti i carabinieri della zona fossero alle mie calcagna, ma l’aver traversato il fiume era un vantaggio che non potevo perdere per simili imprudenze. Forse mi stavano cercando e mi avrebbero ancora cercato verso le montagne o sul bassopiano, a valle del ponte. Benché a malincuore, tornai indietro e ripresi la scorciatoia, diretto al fiume. Feci colazione e considerai con quanta leggerezza sarei andato a cacciarmi tra le braccia degli inseguitori. Eppure avevo stabilito di tenermi lontano dagli accampamenti e dai villaggi. Non è possibile, pensai, raggiungere A. in meno di quattro giorni. E Massaua?
Un mese. Anche due, se occorre.
Del resto, raggiungere subito Massaua significava consegnarsi al maggiore. Tra un mese o due, il maggiore avrebbe persino dimenticato la mia esistenza, mentre ora il suo desiderio di vendetta stava certo facendo di tutta Massaua una sola trappola. Ricordai le sue parole: “Sarei curioso di sapere dove andrà” e mi rassicurai. Supponeva davvero che non avrei osato traversare il fiume? Supponeva che sarei rimasto tra le montagne? Ecco, l’avevo giuocato, stavo mangiando con buon appetito al di qua del fiume, diretto verso la sua trappola, che tra due mesi sarebbe scarica.
E Lei? Era il pensiero di Lei che mi spingeva a Massaua e perciò decisi che, da quel momento, avrei diffidato, delle risoluzioni prese sotto l’impulso del suo ricordo. Lo scopo finale non era nemmeno Massaua, ma l’Italia, anzi la casa. Finché non avessi raggiunto quella casa e bussato a quella porta, dovevo considerare la mia impresa freddamente e non cedere a nessuna suggestione sentimentale accessoria. Eseguivo un lavoro. Non dovevo cedere assolutamente al fascino di Massaua, al fascino del mare che si presenta già come una certezza di liberazione. Perché ora, ricordandoli, quei giorni di Massaua mi apparivano trascorsi in un sogno, e ne provavo nostalgia. La pigra vita nel bar e nella baracca delle docce, il caro e infido volto di Mariam, dipinto solo per giuoco, e la vista di quelle navi (tra le quali, se avessi avuto pazienza, avrei trovato anche la mia) erano già immagini di un mondo perduto che avrei riconquistato soltanto col tempo. “Se da questa terra non hai nemmeno appresa la lezione del Tempo!” dissi. “Avrai tutta la vita per morire di lebbra e adesso ti brucia il terreno sotto i piedi e vuoi finire in un ospedale, quaggiù, con due processi che ritarderanno il tuo ritorno di almeno tre anni.”
Quando passai davanti alla tomba di Mariam ero calmo e non mi fermai nemmeno, andavo diretto verso l’affluente, per risalirlo e sbucare proprio vicino ad A. Questa decisione l’avevo presa guardando la carta. L’affluente sorgeva a sud di A.; e, se un sentiero costeggiava una delle sue rive, mi sarei risparmiato molta strada e ogni sorta di incontri, perché quella zona era davvero deserta di accampamenti e di carabinieri. Mi inoltrai nella boscaglia cosparsa di termitai e raggiunsi l’affluente: era là sotto, sempre placido e inviolato come il primo giorno del mondo.
La gola che conduceva ad A. s’incassava tra due alte pareti, distanti tra loro circa un chilometro all’inizio e che quindi andavano sempre più restringendosi, mentre il fiume si faceva aspro, con brevi cascate, e l’avrei visto, seguitando, diventare torrente, poi semplice rigagnolo. Purtroppo il sole era già nella seconda metà del suo giro, e non affrontavo volentieri l’idea di lasciarmi sorprendere dalla notte in quei luoghi. Calcolai che camminando di buon passo avrei potuto percorrere venti chilometri prima di sera. E la carta, quella carta ottimista, ne segnava almeno cinquanta.
Decisi che se avessi trovato una grotta vi avrei pernottato, altrimenti dovevo tornare indietro. Ma indietro dove?
Sedetti e accesi una sigaretta per guadagnare tempo.
Ormai non riuscivo più a ingannarmi e pensai che se era la paura di smarrire la strada a consigliarmi di tornare indietro, bene, questa scusa poteva valere. Ma se altri timori la dettavano, le ombre della notte, le bestie, questi erano sciocchi timori. Non potevo permettermi tanto lusso. Semmai, le bestie dovevano temere me, che non avevo nulla da perdere, stavolta. E poi, quali bestie? Quando ripresi a camminare ero convinto che non avrei dato a me stesso lo spettacolo della paura, ma dopo qualche minuto decisi che non potevo ingannarmi sino a quel punto, e insistere in una impresa che presentava tanti rischi. I miei nervi erano tesi e sussultavano a ogni piccolo fruscìo.
Dopo mezz’ora, incontrai il mulo. Era un mulo bianco e stava disteso a pancia all’aria, ma non sentivo alcun fetore.
Mi avvicinai e il mulo volse la testa a guardarmi, si levò indolente sulle quattro zampe e si allontanò. Era un mulo bianco, anzi gialliccio, un mulo della Sussistenza, aveva ancora la catena al collo, e la trascinava sul sentiero.
C’era forse qualche accampamento, nei pressi? Ma allora avrebbero legato il mulo alle corde, a un albero. No, era senza basto e camminava a stento, finalmente libero, benché prossimo a morire. L’avevano forse abbandonato su altri sentieri e il soldato non era stato capace di sparargli nell’orecchio, né di tagliargli lo zoccolo con la matricola, per “giustificare” la sua morte. L’aveva abbandonato morente e il mulo stava adesso sulla mia strada e mi guardava temendo che volessi turbare quella sua pace acquistata a prezzo di fatiche e di malattie.
“Andiamo,” gli dissi “faremo la strada assieme noi due.” Ero felice di aver trovato un compagno, un compagno che veniva dall’Italia, come me, e che forse, come me, desiderava tornarvi. Chissà quali pascoli ricordava. Mi seguì docilmente, ma quando tentai di fargli portare lo zaino, si allontanò al trotto e poi si fermò a guardarmi, incerto se proseguire.
Lo raggiunsi lo stesso e gli legai lo zaino sulla groppa con la corda. Allora si voltò e riprese vivacemente la strada verso il fiume, trotterellando, seguito da me che potevo tenergli dietro a fatica.
Si portava via tutta la roba e tutto il denaro, deciso a non ascoltare i miei richiami. Con uno sforzo lo raggiunsi e lo agguantai per la coda; mi trascinava egualmente e dovetti lasciarlo, per non cadere. Allora si fermò a scortecciare un albero, ma appena tentai di avvicinarmi, fuggì sempre trascinando la sua catena sul sentiero. Mi ripugnava ucciderlo e dovetti seguirlo sino alla boscaglia, maledicendolo. Finalmente si lasciò prendere per la catena e potei ricuperare la mia roba, ma ormai quest’incidente mi aveva tolto ogni forza e, stanco, mi sdraiai a riposare, sorvegliato dal mulo, che pascolava, anche lui stanco.
Non avrei più risalito l’affluente, quel giorno. Già il sole declinava e la malinconia della sera si anticipava nello scolorire delle montagne. “Non uscirò mai da questa valle” pensai. “Nessuno vuole che io esca da questa valle.” Il pensiero andò a Lei, struggente, e per placare l’affanno rilessi l’ultima sua lettera, poi anche le altre, ma ormai l’acqua del fiume le aveva slavate e in molti punti non decifravo più le parole. Pensai che un giorno le mie lagrime avrebbero compiuta l’opera, perché di Lei mi restavano quei fogli soltanto.
Ripresi la strada verso il torrente e il mulo mi seguì, tenendosi lontano. Il sole stava calando, quando arrivai davanti alla capanna di Johannes.
“Buona sera, Johannes” dissi.
“Buona sera tenente” rispose.
“Sono molto stanco” dissi “e mi fermerò un poco.”
Il vecchio non rispose e seguitò a impastare la farina sulla pietra. Impastava senza fretta, aggiungendo acqua da una vecchia scatola; e, quando ebbe fatto una pasta ripugnante e molliccia, vi gettò dentro una pietra ovale che frattanto aveva tenuta sul fuoco, e ve la chiuse. Mise la pasta vicino al fuoco e aspettò.
Io sedetti in un angolo dello spiazzo e guardai Johannes che sorvegliava la cottura del suo pane. Quando il pane fu cotto, Johannes lo tolse dal fuoco, lo coprì come un frutto e lasciò che freddasse, poi cominciò a mangiarne lentamente, fermandosi ogni tanto a guardare verso l’altopiano, o verso il fiume, senza mai dirigere lo sguardo verso di me.
All’alba mi svegliai d’improvviso, come forse si svegliano gli uccelli, da un sonno senza sogni. Era la prima notte, dopo tanti mesi, che non sognavo, e tutto l’affanno dei giorni precedenti sembrava essersi dileguato, me ne restava però un ricordo confuso che si schiarì alla vista delle capanne, ancora sommerse nell’ombra. E del mulo, che vagava incerto per lo spiazzo, annusando ora le piante ora il tumulo. Trascinava ancora la sua catena, con un rumore di chiavi tenute in mazzo che si allontanano lungo un corridoio. Non capivo bene se fosse il corridoio d’un convento o d’un carcere. “Maledetto mulo” pensai.
Ero soltanto ansioso di lasciare quel villaggio e di riprendere il cammino, ma un invincibile torpore mi inchiodava a terra. Stavo sulla coperta, nella stessa posizione in cui m’ero coricato, la testa sullo zaino, la mano al cinturone, vicino ai resti del fuoco sul quale la sera prima avevo scaldato il caffè. Mi sentivo pronto, ma quando tentai di levarmi potei muovermi a fatica, le membra si rifiutavano.
Eppure dovevo andare, risalire l’affluente per trovarmi ad A. prima del tramonto. Quando il mulo si accostò e stette a guardarmi, fui in piedi di scatto. Preparai la mia roba e misi lo zaino in spalla, avrei abbandonato quella bestia al suo prevedibile destino, deciso a non dipendere che da me stesso. Avrebbe potuto servirini se non fosse stato tanto male in arnese e se la sventura non l’avesse fatto diventare più testardo. Per colpa sua avevo già perso un giorno. Rischiavo poi di vedermelo cadere in un passo difficile e di perdere così lo zaino. E avrei anche dovuto provvedere al suo nutrimento: e mi riusciva già difficile provvedere al mio.
Poiché Johannes era sveglio, mi approssimai alla sua capanna per salutarlo. Muovevo le gambe e le sentivo di piombo, ma la marcia le avrebbe sciolte, e non potevo concedermi un riposo più prolungato senza mettere in sospetto quel vecchio insolente. Doveva già sospettare qualcosa, perché il mio contegno era già di un fuggiasco, non più di un ufficiale.
“Arrivederci, Johannes” dissi. Vidi che Johannes stava levandosi dal suo giaciglio; poi la terra rossiccia dello spiazzo mi venne incontro, il cielo scomparve e un attimo dopo avevo la faccia nella polvere. Chiusi gli occhi e restai così a lungo. Quando rinvenni, il sole s’era già levato e alcune mosche bevevano ai miei occhi, ma non fui capace di scacciarle, pensavo intensamente di scacciarle e la mano si rifiutava di compiere il breve tragitto. A pochi passi da me c’era Johannes, seduto sui talloni, impassibile, sorseggiava qualcosa dalla scatola che gli serviva da bicchiere. Sorseggiava guardando attorno a sé, non s’era accorto che avevo aperto gli occhi.
Poi, seguitammo a tacere per qualche minuto, io incapace di parlare, lui guardandomi senza curiosità, le mani appoggiate al suo lungo bastone, e con l’indice della destra lisciava la canna, con un movimento sempre uguale. Vedendo che aprivo gli occhi, si levò, mi fece cenno di aspettare e si diresse verso il sentiero. Camminava curvo, le spalle rientrate. Si allontanava e io non ero capace di muovermi; ed era già scomparso dietro il ciglio dello spiazzo quando riuscii a gridare. L’urlo uscì improvviso, mozzato, ma Johannes non aveva potuto udirlo, soltanto il mulo l’aveva sentito e volgeva la testa verso di me, trascinando la sua catena nel lugubre corridoio. Cercai di muovermi, annaspai, gridai ancora, ma la gola secca si rifiutava. L’urlo si tramutò in un lamento e fu soltanto allora che vidi riapparire sul ciglio dello spiazzo prima la testa di Johannes, poi lentamente tutto il corpo. Ritornava.
Vedendomi sconvolto, mi chiese se volevo qualcosa. Avevo già dimenticato il suono aspro, gutturale della sua voce e il risentirla non mi confortò. Gli feci cenno di restare. Poi dopo, chiesi: “Dove andavi?”.
“Su” e indicò l’altopiano. Sarebbe andato a chiedere soccorsi, non voleva noie. Gli feci cenno che non doveva andar via e, allora, obbedì. Mise il bastone nella capanna, si tolse la toga e ancora mi chiese se volevo qualcosa. Non volevo nulla. Volevo soltanto che non si allontanasse e, quando ancora si allontanò con una latta di petrolio vuota, dovette più volte ripetermi che andava a prender acqua al fiume e che sarebbe tornato subito.
“Johannes,” gli dissi quando lo vidi riapparire “io debbo restare qui.”
“Fino a domani, tenente?” chiese.
“Sì, fino a domani.” “Domani starò meglio” pensai “e lascerò questo luogo, non dormirò una notte di più vicino a questi cadaveri e non vedrò la corteccia di questi alberi, né il cielo chiuso dai cigli della valle.”
Dalla latta, gocce d’acqua colavano sui piedi di Johannes. Taceva e io non osavo guardarlo, guardavo i suoi piedi polverosi e l’acqua che li lavava. Infine, disse: “Sei padrone di restare” e lo disse seccamente, ma non voleva essere scortese. Riconosceva il mio diritto.
“Grazie” dissi.
Johannes si allontanò, poco dopo era di ritorno e ancora sedendosi sui talloni, quasi con premura, mi chiese:
“Hai fame, tenente?”.
Avevo fame, o almeno un’estrema languidezza, ma risposi di no. I biscotti e il formaggio, anche se ridotti a poltiglia dal bagno nel fiume, erano sempre preferibili al suo pane malamente impastato e cotto tra la terra di quello spiazzo. Avrei mangiato più tardi, per non offenderlo con un rifiuto troppo palese. Tuttavia, preparò un caffè molto forte e quando l’ebbi bevuto mi sentii meglio. “È soltanto un malessere passeggero,” dissi “e farei bene a incamminarmi.” Invece, mi assopii. Ma tanto era il timore che il vecchio se ne andasse, profittando del mio sonno, che lo chiamai più volte, svegliandomi di soprassalto, ed egli venne sempre a rassicurarmi.
“Non devi andare” gli dissi.
“Però tu stai male” rispose. E aggiunse: “Se non vado la colpa sarà mia”. Allora gli presi una mano, ero stravolto, e quasi lamentandomi ripetei: “Non devi andare”. Poiché mi guardava, senza capire o fingendo di non capire perché confessassi, non osando nemmeno ritirare la mano, ch’era secca e scabra come un ferro mangiato dalla ruggine, aggiunsi: “Nessuno deve sapere che sono qui”.
Si allontanò verso la sua capanna, voltandosi appena a considerarmi, sempre più severo, perché aveva capito e non doveva più fingere, e tutte le sue convinzioni stavano subendo un colpo mortale. Ma era soddisfatto. Così sempre mi avrebbe guardato nei giorni seguenti.
Dopo il terzo giorno stavo bene, ma non avevo nessuna voglia di rimettermi in cammino. La strada per giungere a Massaua mi appariva interminabile e più sulla carta studiavo le tappe del percorso, più mi convincevo che non avrei potuto affrontarne nemmeno un paio in quelle condizioni, senza risentirne subito gli effetti. Dovevo prima rimettermi in forze e, quello, dopotutto, era il luogo migliore che mi si offriva, anche se ogni cosa concorreva a renderlo lugubre. Forse col tempo mi sarei abituato persino a Johannes.
Quel giorno, il vecchio stava lavorando a certi pali per un nuovo giaciglio e mi chiese, insolita attenzione, come stessi: e con una voce che non gli avevo mai sentita. Era una voce più amichevole, avrei potuto sentirci persino un’eco di simpatia se il debole sorriso che accompagnò le sue parole fosse stato condiviso anche dagli occhi. No, gli occhi di Johannes restavano sempre troppo aperti e fissi, quando mi guardavano. Sembrava ogni volta sorpreso di vedermi. Per tutto quel giorno non riuscii a togliermi di mente che il vecchio meditasse qualche cosa contro di me. Ricordavo le parole del contrabbandiere: “Non è gente che si affeziona” e le traducevo: “È gente infida”. Ma non potevo pretendere che Johannes mi colmasse di cerimonie; e avevo deciso ormai di non guastarmi quei giorni di riposo con mille sospetti. M’ero messo nelle mani del vecchio e se mi avesse tradito era quello un segno che stavo presumendo troppo dagli avvenimenti. E poi mi confortava il pensiero di sconvolgere i piani della congiura, appunto con l’offrirmi al carnefice. Era una mossa pericolosa, ma poteva riuscire. Tra i rischi che avrei dovuto affrontare lasciando subito il villaggio era preferibile il rischio di una delazione. Dalla collina si dominava il sentiero e, se fosse venuta qualche pattuglia, avrei fatto in tempo a nascondermi. C’erano alberi dappertutto, e c’era il sentiero che portava all’affluente. Se poi Johannes avesse inventato una scusa per allontanarsi, mi sarei allontanato anch’io, risalendo l’affluente, e avrei fatto perdere le mie tracce. Parlando con Johannes, dissi appunto che avrei dovuto recarmi verso il bassopiano ai confini del Sudan, ed egli parve crederci. Conosceva la strada del bassopiano, e così lo feci parlare a lungo, mentre prendevo appunti. Lo interrogai sulle tribù del bassopiano, ed egli fu prodigo di indicazioni, sicché alla fine del nostro lungo discorso non dubitava ch’io volessi davvero recarmi in quei luoghi. Gli chiesi anche se negli ultimi tempi non era stato sull’altopiano.
“No” rispose. Ora non mi chiamava più tenente, e non ero stato capace, la prima volta, di farglielo notare. “E la tua pensione? Non vuoi ritirarla?” dissi.
“Vado ogni tre mesi” rispose.
“Ed è allora che compri il sale, la farina, e...” che altro poteva comprare?
“Sì” rispose senza staccare gli occhi dal suo lavoro. Lavorava lentamente, facendo la punta ai pali col suo coltello, ma interrompendosi spesso a guardare lo spiazzo e dimenticandosi quasi della mia presenza e del suo lavoro. Erano pali che gli servivano di certo per un nuovo giaciglio; poi, contandoli mi accorsi che per un giaciglio ce n’erano di troppo, forse voleva un letto molto comodo o sostituire qualche palo della capanna.
Restava a volte col coltello nella mano alzata, ma gli occhi non vedevano più in là del suo fuoco, o del primo albero, o del tumulo ch’era in mezzo allo spiazzo. Quando riprendeva a dar colpi col coltello (e mi irritava la sua lentezza, perché spesso non riusciva nemmeno a scalfire il legno del palo), sembrava farlo soltanto per scacciare un pensiero molesto, che doveva preoccuparlo, ma i giorni passavano ed egli non vi accennava mai. Veniva talvolta a dirmi altre cose sui luoghi del bassopiano, contento se mi vedeva prendere il taccuino e segnarvele. Anche Johannes, suppongo, non conosceva il valore del Tempo, e laggiù le stagioni mutavano appena il colore dell’aria; e così egli viveva un’unica stagione senza mai chiedersi se un giorno finirebbe.
Al quarto giorno volli radermi, e mi ero già insaponato le guance (e Johannes mi stava osservando, perché quell’operazione doveva sembrargli un sintomo chiaro della mia partenza), quando decisi che mi sarei fatto crescere la barba, per cambiarmi a quel modo il volto. Mi sarebbe stato necessario avere un volto diverso, e in una settimana avrei potuto ottenerlo. “Un ufficiale col mento ornato da una pur lieve peluria, “pensai “passa per un uomo in regola con la società.” I carabinieri avrebbero esitato prima di chiedermi le carte, dicendo: “Non può essere lui”. Perché la barba richiede quelle cure quotidiane e quella mancanza di immaginazione che un fuggiasco non possiede e non può concedersi. Una barba castana, due occhi chiari, ce n’è anche troppo per confondere un agente dell’ordine. “Vada dunque per la barba” conclusi.
E, quando mi tolsi il sapone dalle guance, Johannes sospirò.
Le forze mi tornavano, ma lentamente, per mancanza di cibo. Quando Johannes vide che avevo finito le mie provviste e che frugavo nello zaino borbottando, venne a offrirmi una parte del suo pane e lo accettai. Ma era talmente scipito che a fatica potei inghiottirlo; e allora rammentai che nello zaino avevo un pacchetto di sale, e lo offrii in cambio a Johannes. Lo accettò senza ringraziare, come un omaggio dovutogli, subito introdusse la lingua nel pacchetto, assaggiò il sale e parve soddisfatto, ma non mi degnò di uno sguardo. Mise il pacchetto nella sua capanna e io stetti a guardarlo, già pentito di quel gesto infantile e impulsivo che non era nemmeno apprezzato. Mi chiedevo come avrei fatto a procurarmi dell’altro sale.
Johannes, come tutti i suoi simili, doveva considerarlo il più prezioso degli elementi, preferibile al denaro e, finita ormai la guerra, alle cartucce. Gli avevo dato un tesoro senza ottenere in cambio uno sguardo. L’unica carta che avrei potuto far valere con lui l’avevo sciupata: e ora Johannes seguiterebbe a darmi ogni giorno una parte del suo pane, ma sempre più sciapo e io non potrei nemmeno chiedergli di usare il “mio” sale, appunto perché gliel’avevo regalato.
Verso sera, dopo un’assenza più lunga del solito, Johannes tornò al villaggio e passandomi davanti si chinò appena per darmi qualcosa, due uova, che bevvi subito. Erano freschissime. Gli chiesi se avrebbe potuto darmene ogni giorno, volevo pagarle qualsiasi somma. Mi rispose che avrebbe tentato, e infatti il giorno dopo ebbi altre due uova, ma nei giorni seguenti nemmeno uno e quando feci osservare a Johannes che davvero avrei pagato qualsiasi somma, pur di averne delle altre, alzò le spalle e troncò il mio discorso con un borbottìo villano. Strinsi le mascelle per non cedere alla tentazione di colpirlo, e mi allontanai affranto, maledicendo l’apatia che mi legava le mani e mi consegnava ogni giorno di più al vecchio e alla sua insolenza. Ormai non avrei più riacquistato terreno e mi consolai dicendo che la partenza avrebbe posto fine a ogni umiliazione. Talvolta ero preso dall’ira a tal punto che afferravo un ramo e mi avvicinavo al vecchio, battendomi gli stivali, pronto a colpirlo in pieno viso se avesse fatto il minimo cenno di noia. Ma allora fingeva di non vedermi. E io gli giravo attorno, impaziente, provocandolo con quei colpi secchi contro il cuoio degli stivali; finchè gettavo il ramo lontano, o sulla groppa del mulo, con rabbia, parlando ad alta voce e mostrandomi pronto a ogni eccesso.
La mattina del settimo giorno trovai Johannes affaccendato a preparare qualcosa nel suo tegame e il selvaggio odore di quello spezzatino mi chiuse la gola; ma all’ora del pasto, quando Johannes mi invitò con un cenno, non potei rifiutare. Dovevo sfamarmi in qualche modo.
Non mi sono mai chiesto quale animale avesse fornito la carne, la peggiore che abbia mai mangiata, durissima e a volte improvvisamente cedevole, al punto da sciogliersi in bocca come grasso e altrettanto difficile a inghiottire. Johannes aveva aggiunto all’intingolo una droga molto pepata, ottenuta pestando certi infernali peperoncini. Tutta la mattina non aveva fatto che pestare peperoncini sulla pietra e adesso erano là, in quell’intingolo. Forse il vecchio si aspettava che rifiutassi, o almeno che ne restassi sorpreso, invece mi sforzai di mangiare tranquillamente e di nascondere lo schifo e più ancora le lagrime, che il bruciore della droga provocava. Mi accorsi che avevo vinto, perché Johannes dimenticava di mangiare e si distraeva a guardarmi, a spiare sul mio volto l’effetto del pepe. Misi tutto il mio orgoglio in quell’impresa. E per la prima volta gli occhi di Johannes tradirono una curiosità, la curiosità del dinamitardo che è ben certo di aver acceso la miccia e vorrebbe sapere perché mai la bomba non scoppia. Era la mia prima vittoria e seppi sfruttarla mangiando in silenzio. Johannes non poté tenersi, e, con visibile sforzo, chiese se mi piaceva quel cibo. Gli risposi ch’era buono, seccamente, senza aggiungere altro. Johannes riprese a mangiare, gli leggevo sul volto un’improvvisa delusione, e poco dopo si arrendeva: “Non è molto pepato?” chiese esitante.
“Pepato?” lo guardai sorpreso, come cercando di capire a che volesse alludere e poi conclusi: “È il suo giusto sapore”. Posso dire che da quel momento Johannes cominciò a rispettarmi, anzi a temermi e non dovetti più girargli attorno battendomi gli stivali e parlando ad alta voce. Quando lo guardavo si limitava ormai a fingere di non vedermi, ma non era più insolente, anche se di proposito evitava di rivolgermi la parola, forse per non essere costretto a chiamarmi col mio grado.
Ma, a parte Johannes e la sua perfidia, ch’io mi sentivo sempre più in grado di rintuzzare, il soggiorno nel villaggio non si presentava così facile come m’era parso dapprincipio. La mattina dell’ottavo giorno (forse in quel momento la “carretta” mollava le ancore o salutava la città), mi accorsi di non avere più sigarette e invano frugai col dito nel pacchetto vuoto. La provvista di Massaua era finita. Oppure, Johannes me ne aveva sottratto una parte. Guardai bene nello zaino, nulla. Pazientemente, mi detti a cercare nello spiazzo i mozziconi che avevo gettato con tanta imprevidenza, e ne raccolsi una dozzina. Mi accingevo a strappare un foglio bianco della Bibbia, quando rammentai che alcune lettere di Lei erano ormai illeggibili. Quelle reliquie non potevano più dirmi nulla, così slavate e confuse, restavano dunque dei fogli ch’io dovevo utilizzare. Questo mi dissi, mentre del primo foglio facevo cartine, forse per placare il brevissimo rimorso che mi frenava la mano. “Perdonami, cara” conclusi. Johannes si volse a guardarmi, come faceva sempre quando mi sentiva parlare.
La carta della posta aerea andava bene: feci dunque la prima sigaretta, ma verso sera ero daccapo. Adesso avrei sofferto anche per la mancanza di tabacco; né Johannes poteva darmene, perché non l’avevo mai visto fumare. E se avesse avuto tabacco? Non se ne sarebbe valso per umiliarmi sempre di più?
La solitudine aggravava il mio disagio, aggiungendovi la tristezza. Andavo su e giù per lo spiazzo, non osavo scendere dalla collina, stimando che i confini della mia sicurezza fossero al ciglio di essa. Il mulo della Sussistenza andava anch’egli su e giù, a volte trotterellava e appariva più florido, forse sarebbe guarito. Quest’ipotesi contribuiva a rattristarmi: difatti la mia simpatia per quella bestia era nata allo spettacolo della sua condizione. Quel giorno, sul sentiero, quando se n’era fuggito portando via la mia roba, avevo esitato a sparargli appunto perché lo vedevo già condannato; ma ora, che sembrava volersi riprendere, l’invidiavo, sentendomi mille volte più colpito di lui, che stava trovando almeno il conforto della libertà.
Spesso sedevo all’ombra di qualche albero, guardando l’altopiano e la valle che mutava colore, dal grigio dell’alba al viola del tramonto. Forse per effetto della solitudine e dei tristi pensieri che mi inquietavano, ora la valle mi sembrava molto più vasta, a volte persino immensa, e tra i due cigli stimavo che dovessero correre almeno sette chilometri. Anche se la vedevo più vasta, i due versanti apparivano sempre nitidissimi e avrei potuto contarne gli alberi e le rocce. Per quanto aguzzassi lo sguardo non vedevo mai passare autocarri, e forse non potevo vederli perché la strada saliva dietro lo sperone che limitava appunto la vista.
Non passava mai nessuno, nella valle, e questo mi parve buon segno, il villaggio era perciò assolutamente fuori mano, in fondo a un vicolo cieco. Da una parte il ponte, dall’altra l’affluente. Forse dovevano esserci altre capanne, a pochi chilometri, e questo spiegava come Johannes avesse trovato le uova. Ma doveva trattarsi di un villaggio ancora più misero, se possibile, di quello di Johannes. Forse un villaggio abitato da una sola gallina. Sorridevo a quest’idea, ripromettendomi di chiedere a Johannes che mi conducesse a conoscere la mia benefattrice. Ma i miei pensieri non erano sempre così lieti. La mente, i primi giorni pigra, cominciava ora a svegliarsi e a rappresentarsi la mia condizione e i pericoli che la rendevano anche precaria. Dall’arrivo al villaggio non avevo più pensato di proposito alla mia malattia, benché questa fittizia indifferenza si scomponesse ogni tanto di soprassalto. Me ne restava un’angoscia ottusa, che a me stesso non potevo dissimulare. Quando la calma e il riposo fecero apparire interminabili le giornate, capii che la disperazione m’avrebbe vinto se non avessi placata ogni curiosità con la lettura dell’intero libretto. Non volevo leggerlo, mi ripugnava, poiché era un libro nel quale, peggio che negli occhi di Johannes, o nella baldanza del mulo, era scritta la mia condanna. Tuttavia, vincendo il fastidio, lessi e seppi che i molti disturbi che m’avevano afflitto negli ultimi tempi erano altrettanti sintomi di quel male.
Leggevo adagio, cercando di capire i termini scientifici, cercando di arrivare a una conclusione. La conclusione era che potevo curarmi, c’erano molte cure da fare, ma nessuna mi avrebbe certamente guarito. Avrei potuto anche guarire, s’erano dati casi di guarigione; e, dopo dieci anni, risvegliarmi una mattina con la mano leggermente mutata, di un colore diverso, appena diversa. E, toccandola, avrei sentito daccapo che non mi apparteneva. Potevo sperare di addormire il male, non di ucciderlo. Sarebbe restata la solitudine.
Stavo leggendo allorché vidi Johannes: anch’egli s’era seduto sul ciglio. Guardava la valle. Era la prima volta che lo vedevo attento a guardare la valle e ne fui sorpreso. Stimavo Johannes insensibile ai panorami e forse incapace di vederli; il suo occhio elementare non era certo uso a coordinare quei vari elementi sino a farne un quadro degno di attenzione. Egli poteva vedere un albero, una capanna, l’altopiano, il fiume, la boscaglia, ma non certo considerarli parte di un paesaggio. La sua visione utilitaria sfrondava il superfluo, e invece ora guardava la valle e mi accorgevo che la vedeva tutta e che il suo sguardo si fermava lentamente su tutte le cose, considerandole. Un pittore non avrebbe guardato diversamente.
A volte strizzava gli occhi o inclinava il busto, ma subito riprendeva la sua immobilità. Ne fui talmente turbato che, quando Johannes si volse a guardarmi scuotendo il capo, non seppi fare il minimo gesto e nemmeno staccargli di dosso lo sguardo. Di colpo pensai che dovevo chiedergli di Mariam, se davvero era malata. Colsi l’occasione quando Johannes, volgendo gli occhi, li posò sulla mia persona, considerandola, suppongo, parte del paesaggio. Gli dissi che mi piaceva quel luogo, e poiché non rispondeva (sì, avevo sopravvalutato il suo giudizio estetico), gli chiesi se ci viveva da molto tempo. “Da un anno” e fece un gesto, quasi volesse gettarsi dietro le spalle il ricordo del tempo trascorso e ormai inutile.
“E con te viveva molta gente?”
“Eravamo in nove” rispose. Lasciai trascorrere il silenzio, un silenzio che avrebbe dissipato la diffidenza di Johannes, e poi con noncuranza chiesi: “Quante donne?”.
Johannes non staccò gli occhi dalla valle e disse: “Due”.
Temetti che, se non avessi parlato subito, Johannes avrebbe capito lo scopo di quel discorso. S’era incantato a guardare la valle e daccapo mi sembrava che la vedesse.
Chiesi: “Uccise anche loro?”.
“Sì, uccise” disse.
“Dunque, nessuna si è salvata?”
“Nessuna.”
Mi sedetti vicino a Johannes, scuotendo il capo, per fargli sentire la mia simpatia. Poi esitando, perché lo sentivo sperduto in quella sua insolita contemplazione, dissi: “Elias mi parlava spesso di una giovane, di una certa Mariam”. Dissi il nome con facilità, come si dice il nome di una persona molto familiare. E aggiunsi: “Non era di questo villaggio? “.
Johannes mi guardò appena: “No,” disse “non era di questo villaggio”.
Perché negava così palesemente? Forse gli doleva ammettere ciò ch’egli supponeva: che Mariam era fuggita prima del massacro, senza dir nulla, per andarsene sull’altopiano, verso la bella vita. Rivedevo Johannes nelle strade della cittadina, fermo sulle soglie ospitali, e ricordavo i suoi occhi che frugavano nel buio della stanza. “Curioso,” dissi “credevo che fosse di questo villaggio, perché Elias me ne parlava sempre, e...”
“Non era di questo villaggio” interruppe Johannes con voce talmente calma da non lasciar supporre una finzione. Se avesse detto la verità? Forse la sua permanenza nella cittadina e il suo inutile girovagare nelle case ospitali aveva avuto un altro scopo, non immaginavo quale, ma uno scopo molto diverso. Forse Elias incontrava spesso Mariam (che abitava nel villaggio “della gallina”), e quegli incontri erano bastati a fargli credere ciò che non era. Aveva detto di essere suo fratello? Bene, ma qui sono tutti fratelli. Non si accostano le sorelle per offrirti la loro timida complicità? Oppure Elias aveva mentito, innocentemente, come mentono i bambini.
“Forse era di un villaggio vicino?” chiesi.
“Non lo so” rispose Johannes. Subito aggiunse: “Non la conoscevo”.
Era difficile capirci qualcosa nello sguardo del vecchio. Ora guardava la valle e la sua menzogna mi stava dando una nuova calma. Potevo persino credere che Mariam. non fosse mai esistita.
Il vecchio non sospettò nemmeno quanta calma mi davano le sue menzogne che quasi mi assolvevano. Se egli negava l’esistenza di Mariam, anch’io potevo negarla. Restavano, sì, le due piaghe. Tuttavia, che Mariam avesse cessato di esistere, benché la menzogna del vecchio fosse palese, era per me un sollievo. Ma ero daccapo. Non avrei saputo mai nulla di lei, se non che aveva paura dei coccodrilli, che talvolta cantava (e potevo immaginarmi le sue malinconiche nenie guardando quel paesaggio), e che rideva anche, come aveva riso quella notte tra le mie braccia. E io restavo al villaggio, a scontare la pena per lei, a quattro passi dalla sua tomba, vicino ad altre tombe, aspettando (ma senza fretta: venti, trenta, sessanta anni) di avere una tomba tutta per me. Per ora avevo un tugurio e le mie piaghe: l’indispensabile per cominciare.
Mi levai in piedi di scatto. “Molto bene, “ dissi ad alta voce “mi resta il conforto della religione, vivens iterum Deo”. E risi. Johannes mi guardò, corrugando la fronte, senza capire.
“Vivens iterum Deo” ripetei urlando. Poiché Johannes seguitava a fissarmi, mi allontanai verso altri alberi e lì stetti a guardare la valle che s’incupiva nel suo implacabile tramonto.
Sopraggiunta la notte, invano attesi il sonno. Il cielo era denso di stelle e, a tratti, in quel silenzio sentivo (o mi sembrava di sentire), il fruscio dell’affluente. Là era il coccodrillo, forse molto vecchio se non osava inoltrarsi verso il ponte, dove gli autisti talvolta fanno il bagno. Visto dall’alto poteva apparire come un tronco marcito che si abbandoni alla corrente, ed era invece un coccodrillo che sapeva la storia di quella valle e anche un poco la storia del mondo, perché il fiume aveva scavato per secoli sotto il suo sguardo. Tuttavia, pensavo, mi sarebbe sopravvissuto. Chissà se un giorno non sarei andato a offrirgli le mie piaghe.
Ecco, di quella terra non sarei mai riuscito a vincere l’orrore della notte, quando il mondo sembrava rotolare nel buio e sotto di me sentivo l’inferno sgranchirsi negli urli delle fiere. Avevo accomodato una delle capanne (mi chiedevo se non era quella di Mariam), vi avevo messo lo zaino, ma vi sostavo malvolentieri. Davanti alla soglia, quasi per un’invincibile superstizione, tenevo acceso il fuoco sino all’alba. Dicevo che mi sarebbe servito se avessi voluto prepararmi un caffè, ma era soltanto la paura a consigliarmi quel fuoco. La paura di Johannes, anche. E di quella tomba che avevo sempre davanti agli occhi. Era la prima cosa che vedevo, svegliandomi.
M’ero dunque acconciato una capanna, ma non osavo ancora dormirci, preferivo coricarmi all’aperto, benché la notte, laggiù, non invitasse mai a restar fuori. Era un cielo diverso e la notte era semplicemente la notte, chiusa e senza uno spiraglio, senza abbaiare di cani, senza i confortanti rumori della vita che procede, la strofa dell’ubriaco che rincasa, lo stridìo del tram. Soltanto la iena e gli sciacalli isterici e molto lontani, quasi volessero con la loro voce aumentare la solitudine, offrendole un rapporto, una misura. Qualche volta, lo spaventoso singhiozzo di un uccello notturno che capitava a posarsi sugli alberi dello spiazzo, e che non riuscivo ad allontanare. Ma era preferibile quel buio alla capanna, che poteva riserbarmi sorprese peggiori. Quella notte mi sdraiai vicino al fuoco e stetti a guardare le stelle, che erano vivissime, ma incombenti e troppe perché potessi scoprirvi le costellazioni e riconoscerle.
Pensai che quella era la solitudine che mi attendeva. Era quella la vuota e implacabile solitudine, la notte che avrei dovuto affrontare, poiché avevo deciso di non interromperla. Non mi faceva spavento. Mi faceva spavento di più la speranza che stava sorgendo, dapprima timida, ogni giorno più insolente, perché era il segno che avrei maggiormente sofferto, una volta fuori di quella valle, dove il mio male passava inosservato. Mi faceva spavento pensare che volevo sopravvivere a ogni costo e che stavo già rovesciando la colpa di questa decisione su di Lei, su mia moglie. Sì, la colpa: non sapevo chiamarla diversamente. Avevo deciso di vivere per Lei, magnanimamente, l’amavo e volevo rivederla; ma non ero più certo (ora che il primo impulso di raggiungerla s’era placato), che Lei desiderasse vivere per me, seguitare ad amarmi. Quanto a chiederle protezione, ogni giorno di più ero tratto a pensare che mi fosse suggerito soltanto da una paura infantile. Non stavo forse confondendo le carte, non scambiavo la mia volontà di vita col bisogno di rivedere Lei e di starle vicino? Lei non era affatto il traguardo, ma un punto di riferimento, il più familiare e quindi mi veniva spontaneo attribuirle un valore che non aveva. Ora volevo coinvolgerla, in nome di un amore che avrei fatto meglio a vietarmi, anziché, alimentarlo con la quotidiana lettura delle sue lettere, o coi ricordi della vita in comune (un anno, e poi la partenza), col ricordo di quell’anno che sembrava colmo di fatti, di parole dette e udite e di gesti.
Sul mio taccuino avevo annotato i giorni di quell’anno, in tante caselle, cercando poi di ricordarne gli avvenimenti, che segnavo a lato. Non i grandi avvenimenti, ma quelli che si fissano nella memoria dall’interno e che non è facile ancorare a un giorno e a un’ora, perché si fissano appunto a nostra insaputa e offuscano tutti gli altri con un loro inafferrabile significato. Quella partenza all’alba, o la mano di Lei contro la parete della stanza. Quando avevo visto quella mano? Ecco, ricordavo il mese, restando poi incerto sul giorno. E non riuscivo a stabilire se in agosto o in settembre Lei s’era gettata in acqua senza spogliarsi, facendomi cenno di seguirla.
E la fotografia di Lei, che sorrideva sempre, come se nulla fosse successo?
La guardavo a lungo, per ore, fino a che l’immagine perdeva ogni certezza e riuscivo soltanto a vedere due occhi, un naso, una bocca, che mi sembravano di un volto già perduto. Anche qui, forse, rovesciavo la situazione: Lei viveva e io tentavo di saperla morta, per ricondurla a me.
Se alzavo lo sguardo da quel pezzo di cartone, vedevo Johannes che aggiustava i suoi pali e, dal modo che adoperava il coltello, con improvvisa stizza, capivo che stava giudicandomi.
Il mio dizionario era diventato molto povero e sarebbe diventato sempre più povero: poche parole per tutti gli atti che mi erano concessi. Mangiare, dormire, guardare, sperare. Però, mangiare con la gola che si ribella, dormire sonni più cupi della veglia, guardare tutto ciò che non avrei toccato, sperare nella guarigione che non sarebbe venuta. Tutte le altre parole cancellate per sempre. Potevo imporre un così povero dizionario, a Lei che si gettava in acqua senza spogliarsi e mi faceva cenno di seguirla? Si sarebbe sacrificata al mio fianco, rinunciando alle sue improvvise pazzie (per le quali l’amavo), l’avrei vista invecchiare e imbruttire accanto a me, cercando di sorridere? L’avrei intesa canterellare, per farmi credere alla sua calma? Gli anni sarebbero stati di trecentosessantacinque giorni e trecentosessantacinque notti, tutti da vivere a occhi aperti e io non avrei sentito i suoi singhiozzi, soffocati nella sua stanza, dove non sarei mai entrato. Che diritto avevo di imporle una prigionia più odiosa della mia?
Verrebbe nella mia stanza e direbbe: “Oggi la mano sta meglio”, oppure: “Ti ho comprato un bel libro”, oppure: “Se consultassimo un altro medico?”. Questo, se tutto fosse andato bene. C’era poi l’ospedale (sì, sarei finito in un ospedale), pieno di studenti che a volte vengono a vedere, e fumano sigarette per vincere la nausea e sono ancora troppo giovani per fingere una cortese indifferenza.
Erano trascorsi dodici giorni dalla partenza del piroscafo e a quest’ora Lei stava rileggendo la mia lettera, chiedendosi il perché di quelle frasi disperate. Ero stato sciocco a scriverle, e anche in quell’occasione avevo confuso il mio bisogno di protezione con la sua ansia di avere notizie. Non le avevo più scritto e non avrei potuto scriverle per molti giorni ancora.
E le sue vecchie lettere non mi davano ormai nessun conforto, poiché le sapevo dirette a un’altra persona, che lei conosceva, non a me, sconosciuta. Cosa avevo più da spartire col giovane che le scriveva lettere piene di riferimenti a una vita da vivere assieme? Le avevo consigliato di far accomodare il giardino, di acquistare certe cose e di venderne altre e ci scrivevamo di un bimbo che avremmo atteso e portato avanti nella vita, di un bimbo che avrebbe avuto tutti i nostri difetti e le nostre virtù oppure soltanto i nostri difetti, visto che le virtù ce le apprende l’esperienza ed è inutile anticiparle.
La nostra unione, proclamata in una chiesa, si era spezzata nel cortile di un’altra chiesa, davanti alle mani delle due ragazze. Come un creditore impassibile, avrei dovuto far valere il contratto matrimoniale, esigere la sua assistenza e imporle una qualsiasi pietà per le mie sventure. Non potevo chiederle di vivere accanto a me. O sarei vissuto nel garage, nella cuccia del cane, pur di guardarla attraverso i vetri della finestra?
Mentre così pensavo, un rumore mi fece balzare in piedi, perché anche le ombre mi spaventavano, ormai. Era soltanto il mulo che veniva, attratto dal fuoco o in cerca di compagnia. Si sdraiò pesantemente, e quando cominciai a carezzargli la groppa, mosse la testa, sfregandola contro la terra, felice. Non sapeva niente della mia piaga e lasciava fare. “Caro mio,” gli dissi “le cose non vanno affatto bene. Anzi, dammi un consiglio. Io ho fatto questo e quello per rivederla e che cosa ho ottenuto? Che non la rivedrò tanto presto. Ho fatto un mucchio di sciocchezze per entrare in Paradiso e adesso eccomi in questa specie di inferno, a chiedermi che cosa succederà. Non piango sul passato, ma vorrei sapere se è giusto che i muli debbano crepare ai bivi, in un’Africa così grande. Vorrei sapere un’altra cosa: tutto quello che ho fatto è per Lei, o per me, che l’ho fatto? È una domanda imbarazzante.”
Il mulo seguitò a strofinarsi e, dalla capanna di Johannes, venne un borbottio, il borbottio del vicino di stanza che deve alzarsi alle cinque e non si spiega le insonnie altrui. Tacqui e mi sdraiai vicino al mulo, poggiandogli la testa sulla groppa.
Lei non mi abbandonerebbe, questo potevo giurarlo, e forse inventerebbe persino le parole per diminuire l’importanza di ciò che avevo fatto e di ciò che non avrei potuto fare. Nella sua calma ritroverei persino la mia innocenza, ma un giorno si sveglierebbe, incapace di assistere a quel naufragio troppo lento. E allora? Ecco, tutti i momenti della nostra felicità mi apparivano assurdi, potevo apprezzarli come le cortesie del carnefice, che si intrattiene a parlare del tempo col condannato, prima di legargli i polsi, e si scusa se stringe troppo. Erano momenti che non mi appartenevano più, e ormai dovevo non ricordarli. Inutile ricordare quella spiaggia, o tutti i luoghi e tutte le date, e la seta della sua pelle e la stanchezza dei suoi occhi all’alba.
Il mio desiderio di rivederla era tanto vile che anche questi pensieri mi confortavano: tuttavia, presi il taccuino, strappai le pagine dove avevo segnato i giorni dell’anno, e le gettai nel fuoco. Stavo guardando i fogli che s’accartocciavano, già pentito di quella risoluzione (avrei rifatto le caselle, ecco tutto), quando lontano, nella valle, sentii il rumore di un autocarro. “Andiamo,” dissi al mulo “andiamo, a vedere.”
La lontananza faceva sembrare quel rumore non più forte del russare di Johannes. Saliva verso l’altopiano, come un moscone sale sempre più verso la sommità del vetro, cercando l’uscita. Era un rumore insistente e preciso, ma debole. Pensavo al maggiore, a quello scherzo che non era riuscito, al suo saluto ironico (che pure mi aveva commosso). La vita aveva quel rumore, l’autocarro saliva ignorandomi e altri autocarri sarebbero saliti verso l’altopiano ignorandomi. Non potevano darmi nessun aiuto, ormai.
Raggiunsi il ciglio dello spiazzo e fissai lo sguardo nel buio della valle, appena rischiarata dalla volta del cielo. Non vedevo nulla e il rumore si allontanava sino a scomparire. Poi vidi, sul costone, la luce dei fanali dell’autocarro che saliva. Contro la fosca parete, sembrava il fiammifero del nottambulo che cerca il buco della serratura. La luce si muoveva lentamente e saliva sul costone, sempre cercando, poi si volse e scomparve. Rimase soltanto il rumore di prima, ma più ottuso, spesso affievolendosi sino a tacere, ritornando più forte e a tratti quasi vicino. Sentivo cambiare le marce. Poi sfumò, anzi s’interruppe all’improvviso. Forse l’autocarro aveva raggiunto l’altopiano e ora correva verso la costa.
Rimasi solo, senza neanche quella voce e ritornai in fretta alla capanna. Non potevo dormire. Presi la giubba dallo zaino e rovesciai le tasche per cercare tra la lanugine qualche filo di tabacco. Nel taschino trovai, invece, due biglietti di un cinema di Napoli. C’eravamo andati la sera prima della partenza.
Allora la gola si sciolse e, baciando quei pezzi di carta che mi parlavano di Lei più di ogni altra cosa, lasciai che le lagrime scorressero. Ero preso da un tremito che mi sollevava. Anche Lei, quella sera, nel buio della sala, aveva pianto sulla mia spalla. Afferrai la giubba e tenni la manica sulla bocca, baciandola, e anche per soffocare i singhiozzi. Inutile precauzione, Johannes s’era svegliato e borbottava, anzi cominciò a parlare nella sua lingua e certo mi stava maledicendo perché gli avevo interrotto il sonno.
Mi levai, raccolsi un ramo secco e mi avvicinai alla capanna di Johannes, che seguitava a parlare, e presi a battermi il ramo contro lo stivale. Johannes tacque.
Gettai il ramo, raggiunsi il fuoco e mi sdraiai bocconi sulla giubba pensando che aveva assorbito le lagrime di Lei.
Il giorno dopo decisi che dovevo andarmene. Mi accorgevo che erano bastati quei dieci giorni di ozio a rendermi vile e a farmi apparire il viaggio a Massaua non solo pieno di pericoli, ma inutile. Forse tutti i pensieri della notte precedente m’erano stati suggeriti appunto dalla viltà e, restando ancora in quel villaggio, sempre più avrei accampato scuse per rinviare la partenza, sino a ritenerla impossibile. Avrei detto che non dovevo partire per Lei, come prima avevo detto il contrario. Il giorno che fossi arrivato a questa conclusione, tutte le mie stupidaggini sarebbero state commesse invano. Avrei dovuto restare per sempre al villaggio (ossia, aspettare di esservi scoperto da una pattuglia di carabinieri), oppure spingermi sino al primo comando, là sul ciglio, e prevenire la cattura, consegnandomi.
Poiché respingevo quest’ultima ipotesi, dovevo considerare l’eventualità del soggiorno al villaggio. Bene, non potevo restarvi. Johannes aveva già dimostrato di non sopportare la mia presenza, il suo villano comportamento della notte scorsa voleva essere soltanto un anticipo di ciò che teneva in serbo per l’avvenire, quando né il ramo battuto contro gli stivali né la rivoltella l’avrebbero intimorito. Dovevo andarmene: restando, rischiavo di indebolirmi al punto di non sopportare una sola tappa del percorso, e invece sapevo che la prima tappa, la più dura, doveva essere fatta in un solo giorno. Decisi che sarei partito il giorno seguente, ormai il sole era già alto. Non dovevo preoccuparmi del bagaglio, ch’era sempre pronto, sarei andato via senza nemmeno salutare Johannes, per non offrirgli la vittoria sul piatto. L’avrei sorpreso col mio disdegno. “Forse,” pensavo “la mia partenza improvvisa lo colpirà, e si pentirà di avermici costretto.”
Spiegai la carta e ancora una volta misurai la distanza dal villaggio ad A. Cinquanta chilometri in linea d’aria, calcoliamo sessanta, insomma dodici ore di marcia di buon passo, concedendosi soltanto un’ora di riposo: l’intera giornata. Forse avrei resistito e, arrivando ad A., busserei alla porta di qualche casa ospitale, e perché non alla casa di Rahabat, col suo fonografo? Niente Rahabat, potrebbe capitarci il maggiore. Comunque, una casa vale l’altra. Dovevo soltanto non cedere alla tentazione di passeggiare su e giù illudendomi di non essere preso, e alla tentazione (fortissima) di salire su un camion, dicendo: “Non fermeranno, proprio questo”.
Se fossi riuscito a non cedere a queste due tentazioni, sarei arrivato a Massaua. E già esultavo, perché l’idea di rivedere una casa, una strada, e qualcuno che non fosse Johannes mi stava inebriando. Misuravo su e giù lo spiazzo, felice, perché ancora una volta avevo vinto lo sconforto e sentivo risorgere il desiderio di lottare. Mai come quel giorno il villaggio mi apparve misero, assolutamente provvisorio, già pasto di formiche e, quando Johannes fosse morto, tana di sciacalli. Forse aspettavano impazienti che il vecchio morisse per sistemarsi su quella collina, dove il vento portava dai luoghi più remoti il buono, estasiante odore dei cadaveri decomposti. “Sì,” dicevo “una vera occasione per quelle brave bestie, un tale osservatorio olfattivo, quando questo Johannes si deciderà a seppellire la sua insolenza!”
Poiché vedevo Johannes venire verso la capanna con la solita latta colma d’acqua, non potei tenermi e gli dissi che sarei partito. Avevo tra le mani il ramo col quale m’ero battuto gli stivali e lo agitai allegro, dandogli la notizia come se un telegramma lungamente atteso mi autorizzasse ormai a lasciare quel luogo che detestavo. Proseguì chinando il capo cortesemente (la lezione della notte era servita); poi sorrise persino e si voltò accennando verso il bassopiano. Stavo consultando la carta, quando me lo sentii alle spalle, e dovetti rimetterla in tasca perché non vedesse il percorso già tracciato da quel luogo sino a Massaua. Ma forse non sapeva leggere una carta e non immaginava nemmeno che quelle macchie azzurre o rossicce volessero significare il mare e la terra, la sua terra. Sembrava molto lieto e cominciò a dirmi tutto ciò che sapeva sul bassopiano, come già aveva fatto i primi giorni. Contando sul naso con le dita, elencò i cinque punti in cui avrei trovato acqua, se mi fossi deciso ad abbandonare il fiume. Ripeteva i nomi delle località, che cominciavano tutte con la parola mai (ogni pozzo o sorgente è indicato quaggiù con questa parola che significa appunto acqua), e non sembrò soddisfatto finché non li ebbi segnati sul taccuino. Ripeteva, e volle che ripetessi con lui, quei nomi. E, infine, per accertarsi che li ricordavo, prese a interrogarmi. E diceva: “Mai?..” insistendo sino a che non pronunciavo correttamente il nome della località. Improvvisamente concluse: “Buon viaggio”. Lo disse senza ironia, che ignorava, e si allontanò, come se io fossi partito all’istante.
Subito dopo Johannes ridivenne il vecchio insofferente che avevo conosciuto nei primi giorni. Esaurito ciò che stimava suo dovere, indicare la strada al viandante, egli voleva mostrarmi che non aveva dimenticato nulla della notte scorsa. Ora, per esempio, camminava per lo spiazzo borbottando e con gli occhi a terra, cercando qualche cosa, il ramo che m’ero battuto contro gli stivali. Quando l’ebbe trovato, l’afferrò e lo ruppe ostentatamente, gettandolo poi sul fuoco, senza mai smettere di borbottare. Quel gesto infantile mi fece sorridere. “L’ira di Johannes” pensai “è breve come il tempo che gli resta da vivere. Se non sa tenersi da certe ridicole proteste vuol dire che è un essere debole. Meglio così, rompendo quel ramo ha placato tutto il suo rancore, come i bambini che picchiano lo spigolo del tavolo contro il quale battono la testa. Ora si stima vittorioso e quest’illusione lo renderà sopportabile per tutta la giornata, per queste ultime ore di vita in comune.” Eppure, mentre mi dicevo queste cose, sentivo che Johannes era capace delle più meditate vendette, la durezza di quegli occhi mi suggeriva che i suoi ingenui trasporti volevano soltanto nascondere una perfida manovra. Allora lo chiamai e stette a guardarmi sospettoso e, quando vide che sorridevo, avanzò timidamente. “Johannes,” dissi “domattina lascerò il villaggio, ma prima voglio ringraziarti e penso che vorrai accettare questo.” Così dicendo, gli porsi un biglietto di banca.
Lo guardò esterrefatto, era forse la somma più grossa che avesse mai vista, e fece il gesto di indietreggiare spaventato. Dovetti mettergli il biglietto tra le dita, ma restò a guardarmi, incapace di stringerlo e poco dopo gli cadde a terra. Risi, raccolsi il foglio e ancora una volta lo consegnai a Johannes. Ma adesso scuoteva la testa e porgeva verso di me il foglio, come chi respinge il prezzo del tradimento o del silenzio. Lo vedevo agitato, sconvolto forse dal miraggio di quel possesso, ma non poteva accettare, non avrebbe mai osato. Approfittò del mio stupore per allontanarsi in fretta e nascondersi nella capanna, da dove uscì soltanto per cuocersi il pasto.
Stavolta appariva più rabbuiato del solito, mi lanciava sguardi carichi di un odio così profondo che sempre più mi rallegrai di doverlo lasciare. Invano cercavo di spiegarmi le ragioni del suo rifiuto, finché dissi che potevo cercarla nel tumulo dello spiazzo, cioè nell’essere io alleato di coloro che avevano contribuito a riempirlo. Ecco, i suoi sguardi erano quelli del giorno che l’avevo trovato intento a riempire la fossa. “Non ha dimenticato” dissi “e non dimenticherà mai. Ed è una bella pretesa la mia, che egli deponga il suo rancore davanti a un biglietto di banca, che non avrà mai occasione di spendere, perché al suo sostentamento basta questa miserabile terra e quella solitaria gallina e, quello sciagurato animale che si offre per i suoi spezzatini. È un saggio e, come tutti i saggi, detesta il denaro perché ne sospetta il fascino. Vuol fuggire le tentazioni. In questo deserto! O vuol soltanto dimostrarsi che sono il vincitore ma non l’amico, che posso vendergli, ma non regalargli qualcosa.”
Dunque, la mia offerta offese profondamente Johannes. Per tutto il giorno evitò di guardarmi e di rivolgermi la parola e, quando fu sera, lo vidi che si allontanava verso l’affluente con la sua latta da petrolio. “È un’ora insolita per recarsi al fiume” pensai, ma non diedi al fatto più importanza di quanto meritasse. Forse era successo che il mulo, approfittando dell’incuria di Johannes o della sua distrazione, aveva bevuto l’acqua e ora il vecchio, pazientemente, si recava a riempire la latta. Sarebbe tornato. A quell’ora non poteva affrontare la strada dell’altopiano, a rischio di trovarsi sperduto di notte nella boscaglia. Per ingannare l’attesa, mi preparai all’ultima notte nel villaggio e feci bollire tutto il caffè rimastomi per mischiarlo all’acqua della borraccia. Mi sarebbe servito in cammino. Decisi anche di alleggerire lo zaino degli oggetti superflui ma c’era ben poco da gettar via. Finite da tempo le provviste, mi restava poca biancheria, la coperta, il pacchetto delle lettere, la Bibbia, il necessario per la toletta e il denaro. Misi nello zaino anche un grosso pane (sapevo farlo da me, ormai, e Johannes mi aveva venduto parte della sua farina), e legai le cinghie.
Dopo un’ora, la sera era già scesa. Johannes non era tornato. Con Johannes, ora che ci badavo, era scomparso anche il mulo: dunque, mi avevano lasciato solo. Quella sera il cielo appariva velato da un’improvvisa caligine, non avrei avuto nemmeno la luce delle stelle. Cominciai a spazientirmi e, dopo essermi inoltrato nel sentiero per un buon tratto, chiamai Johannes a gran voce, due, tre, dieci volte. Ma nessuno rispondeva, se escludiamo quei malinconici uccelli notturni che già cominciavano, prima ancora degli sciacalli, a considerare il villaggio la loro futura dimora e, attirati dal silenzio, avanzavano i primi diritti. Nessuno rispose e allora tornai al villaggio, pensando che nel frattempo Johannes fosse tornato. Tra me dicevo che poco m’importava la sua assenza, purché non significasse la temuta delazione.
Trascorsi molto tempo accanto al fuoco, con le spalle poggiate alla capanna, perché non avevo sonno. Pensavo che Johannes s’era forse recato al villaggio vicino, il villaggio delle uova, e che vi era rimasto, sorpreso dal calar della notte. Ripensandoci, dovetti escludere questa eventualità. Ricordavo che Johannes s’era allontanato con la latta da petrolio, segno che voleva recarsi a prender acqua, quindi doveva essere rimasto al fiume, ma a che fare? Perché s’era trascinato il mulo, se doveva soltanto recarsi al fiume? Non certo per fargli portare il recipiente, a quel pigro. E allora? Ma è chiaro, Johannes ha finto di recarsi all’affluente e a quest’ora trotta sulla scorciatoia, anzi è arrivato al comando e racconta di un ufficiale che infesta il suo villaggio da dieci giorni e parla sempre di recarsi sul bassopiano, ma non parte mai. Presi a maledire il vecchio, che aveva giuocato in modo da rendere impossibile la mia fuga. Prima dell’alba non avrei potuto mettermi in cammino e all’alba la collina sarebbe già sorvegliata da una pattuglia. Riconoscevo l’astuzia del primitivo che si affida alla notte per caricare le sue trappole. “Bene,” dissi “te lo sei meritato.” Pieno di stizza, guardai l’orologio: ma segnava ancora le sette, s’era fermato. “Ci siamo” dissi. Era un triste presagio, che mi accrebbe il malumore.
Un’altra ipotesi venne a turbarmi. Forse Johannes era annegato. E il mulo doveva essere rimasto sulla riva, sorpreso dalla rapida scena che s’era svolta sotto i suoi occhi, incapace di afferrarne il senso, incapace di aiutare il povero vecchio.
Mi levai in piedi di scatto e presi dal fuoco un grosso tizzone. Facendomi luce con quello (lo agitavo perché restasse acceso), mi inoltrai daccapo nel sentiero, gridando per darmi un po’ di coraggio, le ombre erano spaventosamente cresciute e a fatica trovavo la strada. Gridavo il nome del vecchio non perché sperassi in una risposta, ma per spaventare le bestie che a quell’ora usavano di certo recarsi al fiume per abbeverarsi. Il sentiero scendeva, si faceva aspro e strapiombava nel buio. Il tizzone illuminava, pochi passi davanti a me, impedendomi tuttavia di vedere la valle e il corso d’acqua. Quando stimai di aver disceso il sentiero per un buon tratto mi fermai, dissi che era inutile proseguire e che Johannes non poteva essere annegato, e che il mulo non era rimasto sulla riva. Lo avrei sentito nitrire. Non c’era nessuno laggiù, non percepivo il minimo rumore, eccetto quello dell’acqua contro i rami.
Se anche il mulo fosse stato divorato dal coccodrillo? Dovevo accertarmi, ripresi a scendere e dopo un po’ sentii che ero sulla riva, ma non vedevo nulla. Solo il fruscio dell’acqua, ora più forte, mi diceva che ero sulla riva. Agitai il tizzone sopra la mia testa e non vidi nulla, benché intuissi in quel buio il corso d’acqua. Lo abbassai e scoprii le tracce degli zoccoli del mulo, ma nessun segno di lotta e nessuna traccia di sangue. C’erano alcune strisce sulla sabbia, come prodotte da un erpice, però regolari, non disordinate. Nessun segno di lotta. Mi rallegrai, ma per poco; ciò significava che Johannes era sull’altopiano. “Johannes” chiamai ancora, ma rispose soltanto il fruscio del fiume e allora rifeci di corsa il sentiero, arrampicandomi un po’ troppo in fretta. Dopo un centinaio di passi urtavo contro la latta da petrolio. Era vuota e quasi nascosta in un cespuglio. Dunque, Johannes era arrivato sin là. Mi accorsi che il sentiero si biforcava e feci qualche passo sul sentiero sconosciuto, gridando ancora il nome del vecchio. Il sentiero terminava, dopo pochi metri, in uno spiazzo molto più piccolo di quello del villaggio. Sempre agitando il tizzone, vidi che lo spiazzo era chiuso in fondo da una capanna circolare, intonacata e coperta di paglia. Era una capanna molto ben fatta, ma nel più completo abbandono. Non v’era porta e non osai entrarvi, solo chiamai ancora Johannes per qualche tempo e poi rifeci la strada verso lo spiazzo, e vi giunsi che il tizzone s’era spento e il fuoco anche. Non c’era nemmeno brace, e dovetti riaccendere tutto daccapo. Dentro di me maledicevo il vecchio, che era scomparso senza dirmi nulla, prevenendo ciò che avevo meditato di fare io, cioè di andarmene all’alba senza salutarlo.
“Adesso provati a dormire” dissi. Inutile aggiungere che non vi riuscii e stetti sveglio, attento a ogni rumore, pronto a sparare alle ombre, a tutte le ombre. Davanti ai miei occhi stava il tumulo, dovevo guardarlo perché giammai avrei osato volgergli le spalle. Mi sentivo talmente indifeso che entrai nella capanna, ma subito ne uscii ancora più inquieto, dicendomi che, dopotutto, preferivo vedere, volevo vedere. E allora ripensai alla curiosità che uccide i soldati in battaglia, quando la paura fa levare le teste, perché tutti vogliono vedere, vedere almeno il nemico, non saperlo là davanti senza poterlo vedere.
Chiamai ancora Johannes, urlando, finché la gola si rifiutò di emettere il minimo grido, e anche il minimo rantolo. Stetti addossato alla capanna, bagnato di sudore da capo a piedi, e più volte la rivoltella mi scivolò di mano. La raccoglievo e infine la lasciai a terra, incapace di tenerla. La sentivo inutile.
Stavo così inebetito, allorché a confortarmi venne un quasi impercettibile, gentile, profumo. Suppongo che il sudore avesse ravvivato il profumo di lei, sulla manica della giubba, quando aveva pianto sulla mia spalla nella buia sala del cinema. Era un gentile, lontano profumo, forse di ciclamino, benché io non conosca esattamente il profumo di questo fiore. Ma la sua gentilezza era tale che la prima immagine a cui potei associarlo fu quella di un ciclamino, di un delicato bouquet di ciclamini. Ma era lontano, e mi chiedevo se la valle, tra le sue altre sorprese, non custodisse anche una cultura di quei delicati fiori. Annusai la giubba, ma non era quella l’origine. Non ricordavo che Lei usasse un profumo simile, così infantile e quasi impercettibile. Tuttavia, mi ridette animo, portandomi a ricordare gli anni dell’infanzia. Dove avevo sentito quel profumo? Non si trattava, ormai, dell’ignobile fiato che m’aveva sconvolto in altre occasioni e che non era più venuto a turbarmi. No, questo era gentile e inafferrabile, benché dovessi sempre attribuirne la causa alla mancata cena.
Ben presto il profumo svanì, e io restai solo. Temetti di aver paura, ma di che cosa dovevo aver paura? Non c’era motivo di aver paura, mi andavo dicendo. Fissavo gli occhi nel buio e non vedevo nulla: quindi, non dovevo aver paura. Non appariva nulla, nemmeno la più lieve ombra, e le cime degli alberi non si staccavano nemmeno contro la volta del cielo, il buio era completo e uniforme. Potevo dire di aver gli occhi bendati, se gli occhi non avessero distinto una profondità in quel buio. E non sentivo il più lieve rumore, nemmeno il rosicchiare di un topo o il sospiro di una talpa. Quella notte nemmeno gli sciacalli urlavano e il riso della iena tardava. “Possibile?” dicevo. “Non ci sono più cadaveri in questa valle e al loro posto fioriscono invece ciclamini?” Anche gli uccelli dormivano, nessuno di essi borbottava o singhiozzava e nemmeno il ticchettio dell’orologio rompeva il silenzio. Lo caricai. Certamente qualche granello di sabbia doveva essersi infiltrato nell’ingranaggio, perché non camminava. Fissavo gli occhi sui tizzoni del fuoco, ma il buio circostante era eccessivo, e non avrei potuto allontanarmi dalla capanna, ammesso che fossi riuscito a levarmi in piedi; intuivo che lo spiazzo m’avrebbe respinto. Allora cercai di ridere di quella paura, presi un ramo e cominciai a batterlo contro la capanna, a tempo, cantando. Poi recitai ad alta voce qualcosa che avevo imparato nei primi anni di scuola, una poesiola francese, di cui il primo verso era: Une montre à moi? Quel bonheur! Mi meravigliavo di saperla ancora e la ripetevo sempre daccapo, finché i versi mi parvero insignificanti, ma ero riuscito a placarmi e non tremavo più. Tutta la notte ripetei quella poesia e soltanto all’alba mi accorsi che avevo la febbre e forse stavo delirando. Inutile pensare a mettersi in cammino, lo zaino era già pronto, ma non sarei stato nemmeno capace di sollevarlo. Maledicevo la mia paura, ora che le ombre svanivano e lo spiazzo riappariva, e maledicevo Johannes. Stavo appunto maledicendolo quando lo vidi venire in groppa al mulo, dal sentiero dell’affluente. Non potei frenarmi, gli corsi incontro e vidi che fumava una sigaretta.
Ne restai così turbato che non feci domande. Johannes nemmeno fece domande, mi salutò appena, entrò nella sua capanna e ne uscì poco dopo per accendere il fuoco e prepararsi qualche bevanda nella scatola. Sembrava di ottimo umore, rivolgeva spesso la parola al mulo e gli dette persino un pezzo di pane.
Aveva portato alcune uova e un sacchetto di farina, forse era stato al villaggio e doveva esserci un sentiero a me sconosciuto che vi conduceva. Ma quella sigaretta? L’aveva chiesta a un soldato, oppure gliel’avevano data al solito villaggio (a meno che non si trattasse di un semplice mozzicone gelosamente conservato). Dal modo come teneva la sigaretta tra le labbra, si capiva che era la prima volta. La stava sciupando! Quando l’ebbe finita, gettò il mozzicone ostentatamente verso di me, ma penso che non abbia voluto farlo apposta. Tuttavia, schiacciai il mozzicone con rabbia e, con rabbia ancora maggiore, mi indignai del mio gesto puerile.
Ora preferivo dormire il giorno e vegliare la notte. Mi assopivo verso l’alba e il mio sonno durava sino al pomeriggio inoltrato. Dormivo nella capanna e alle voci che udivo nei sogni confusi della canicola si univano le voci reali di Johannes e del mulo. Dacché mi chiudevo nella capanna sino a quando ne uscivo, il vecchio parlava sempre: era quello il suo modo di tenersi compagnia. A volte, con improvvisa civetteria, parlava nella mia lingua, non diceva cose molto importanti, per lo più si limitava a descrivere l’azione che stava compiendo il quel momento. A esempio, diceva: “Ora Johannes prende l’acqua e la mette sul fuoco”, oppure: “Adesso comincerò a tagliare i pali”, e così di seguito, brevi frasi che mi giungevano come graditi messaggi, perché significavano che Johannes non s’era allontanato e che tutto era in ordine sullo spiazzo.
A volte, invece, parlava rapidamente nella sua lingua, ed ero certo che si rivolgeva al mulo, benché mi riesca difficile immaginarmi il succo di quei discorsi. So che parlava al mulo; e quasi sempre le sue parole terminavano col rumore di un palo che colpiva la groppa della bestia, ma erano colpi amichevoli, subito seguiti dal trotto del mulo che si allontanava sino all’estremità dello spiazzo, per poi ritornare. E Johannes ricominciava. Ma quel chiasso non mi infastidiva, o per lo meno avevo imparato ad apprezzarlo; e, tra me, nel dormiveglia, anticipavo spesso sia le frasi di Johannes che le sue azioni e non sbagliavo quasi mai. Si aggiunga che Johannes si mostrava sensibile alla mia discrezione: il non vedermi più sullo spiazzo da mane a sera, immerso nei miei tristi pensieri, gli rendeva di certo più sopportabile la mia presenza al villaggio. S’era stabilita tra noi una tacita tregua, io evitavo di minacciarlo o di far valere la mia autorità, egli aveva deposta la sua insolenza. Se gli rivolgevo la parola, rispondeva cortesemente e spesso era lui stesso a iniziare il discorso. Anzi, dopo quella notte, mi aveva offerto di acquistare uova e farina per un compenso ridicolo e io, memore del primo rifiuto, non aveva tentato di fargli accettare di più.
Nel pomeriggio del dodicesimo giorno mi allontanai dallo spiazzo, diretto alla capanna circolare che avevo intravista lungo il sentiero dell’affluente. Johannes mi guardò andar via senza dir nulla e poco dopo ero davanti alla capanna. Sembrava una costruzione migliore delle altre che erano sullo spiazzo. Per entrarvi bisognava salire tre gradini di terra battuta. Il piano del pavimento non era a livello del sentiero e ciò bastava a impedire l’ingresso alle bestie vaganti e alle formiche che in quel luogo abbondavano. Le mura sottili ma coperte di intonaco e la copertura conica, di paglia regolarmente pressata, facevano sembrare quella capanna un padiglione da caccia. Mancava la porta, ma suppongo che l’avessero tolta, perché non mancavano i cardini. Anche l’interno era circolare, misurava forse sei passi di diametro e appariva anche pulito, ma non conteneva nessun mobile, nemmeno rudimentale. Sul pavimento c’erano alcuni cocci impolverati e basta, non un giaciglio e nemmeno uno sgabello. Mi stavo chiedendo come mai Johannes non avesse preferito quella capanna alle altre dello spiazzo: offriva molti vantaggi, oltre al fatto di essere situata vicino all’affluente (bastava scendere il ripido sentiero per trovarsi sulla riva). E l’ombra costante delle piante che circondavano il breve piazzale (erano alberi fitti e verdi), rendeva persino buio l’interno, vantaggio inestimabile, questo, in un luogo dove il sole non dà tregua.
Mi spiegai la riluttanza di Johannes dopo che, guardando meglio, ebbi scoperto sopra la porta una macchia, o qualcosa che somigliava a una pittura. Accesi un fiammifero e lo tenni alto sopra la testa: sì, era una pittura, molto semplice e molto comune quaggiù, un Arcangelo che uccide il Dragone. Il pittore aveva fatto del suo meglio, ma (suppongo) non sapendo bene cosa fosse un Dragone, gli aveva dato le forme di un coccodrillo. Dunque, Johannes non abitava quella capanna perché era in realtà una chiesa, o una cappella votiva. Ma non si vedeva traccia di altare e niente che potesse indurre a ritenere sacro quel luogo, eccetto la pittura. Infine conclusi che non si trattava di una chiesa o di una cappella: la pittura in questo caso sarebbe stata di fronte alla porta, visibile anche dall’esterno.
Detti un ultimo sguardo all’Arcangelo e stavo per uscire quando sulla soglia apparve Johannes. Mi sorrideva, felice che ammirassi la capanna, che doveva sembrargli una costruzione meravigliosa. Accennava ai muri, li batteva con le nocche per farmi sentire che risuonavano e intanto si assicurava che tutto fosse in ordine là dentro, voglio dire che si guardava attorno con la preoccupazione del cameriere che mostra la stanza all’ospite. Forse desiderava che venissi ad abitarla, per non avermi tutto il giorno tra i piedi. Non sapendo cosa dire davanti al suo entusiasmo, elogiai quella costruzione e gli chiesi perché non l’abitasse. Mi rispose che la capanna non era sua, ed era certo la risposta che meno mi aspettavo. Ormai avevo perso il concetto di proprietà e non m’ero mai chiesto se le capanne africane appartenessero a qualcuno oppure fossero fornite dalla natura, incluse nel paesaggio, veri beni immobili a disposizione di noi mobili mortali. Ne dedussi che io occupavo la mia capanna abusivamente, m’era difatti sembrato superfluo chiedere a Johannes il permesso di occuparla. Gli dissi sorridendo quel che pensavo e Johannes rise di cuore. No, potevo starci in quella capanna, ci stessi pure! Ma allora perché faceva distinzioni così sottili? Perché quella capanna sì e questa no? “Johannes”, dissi “potrei venire a occupare questa capanna?” Parve seccato della richiesta, mi rispose che non era sua e non poteva disporne. L’occupassi pure, se lo ritenevo necessario, ne avevo tutti i diritti, ma lui non poteva disporne. “Di chi è la capanna?” chiesi. (“Di chi può essere,” pensavo “se non di quel prete che ho visto nella boscaglia insieme a Johannes? Ecco che si spiegherebbe la presenza di questo povero dipinto.”)
Johannes esitava a rispondere, poi disse che apparteneva a persona ora non più al villaggio, ma che forse sarebbe tornata. E nel dire queste parole mi guardò fisso, avvicinando (così mi parve) la testa verso di me. “Bene,” pensai “è la capanna di Mariam.” “E questa persona” chiesi “abitava qui sola?” Rispose di sì. Per quale motivo quella persona abitava sola? Questo Johannes non seppe o non volle dirlo. Anzi, non volle dirlo.
Risalii gli scalini e accesi un altro fiammifero, per dare un ultimo sguardo alla pittura. Sotto il coccodrillo, stavolta, scoprii un breve cartiglio con alcune parole tracciate in caratteri copti. “Che significa questa frase?” chiesi. Il vecchio mi tolse di mano la scatola dei fiammiferi, ne accese un paio, compitò, socchiuse gli occhi, poi tradusse faticosamente. Non capivo bene, dovetti fargli ripetere le parole e, infine, capii anche troppo; e in quel momento seppi che quella era la mia capanna e che l’avrei abitata per sempre.
A questo pensiero mi assalì tale sconforto che ritornai di corsa verso lo spiazzo e quel misero, abominevole spiazzo mi parve un meraviglioso giardino inondato di sole. La presenza del mulo, la luce che animava gli alberi e incideva i monti lontani e il ciglio dell’altipiano, facendoli sembrare vicinissimi, le capanne sbilenche e rattoppate, il tumulo coperto di erbe, il fuoco di Johannes che scoppiettava e la marmitta che fumava, ogni cosa insomma mi parve inneggiare alla vita. Mai naufrago nella sua zattera, svegliandosi dopo notti di mare incostante sulle sabbie di una spiaggia, tra dame e cavalieri che lo osservano con simpatia, tra medici e fotografi chiamati d’urgenza, provò la dolce sensazione di rivivere che provai su quello spiazzo. No, mai avrei lasciato quel villaggio per ritirarmi nella sinistra capanna che mi aspettava. Quando il mulo mi passò a tiro lo carezzai lungamente sul muso, mentre le lagrime mi impedivano di vedere ciò che stava facendo Johannes. Niente di eccezionale, stava cucinando.
“Nessuno potrà impedirmi di restare qui” dissi al mulo e lui contento di queste carezze, si strofinò contro la mia spalla. Per non soccombere allo sconforto, decisi di prepararmi la colazione e presi a impastare la farina. Ma poco dopo, incapace di resistere, corsi da Johannes. “Chi è la persona che abitava quella capanna?”
Johannes mi guardò stringendo le labbra, spazientito, e smise di mangiare. E poiché non si decideva a rispondere, ripetei la domanda una, due, tre volte. Gli agitai sotto il naso le mani intrise di pasta, pronto a schiaffeggiarlo se non avesse risposto.
“Di chi è quella capanna?” urlai alla fine.
E Johannes rispose: “Di un prete”.
La mia collera sbollì di colpo. “E dove si trova, ora?”
Johannes si guardò attorno, meravigliato che non sapessi dove si trovava il prete. Poi, con la mano che teneva il coltello, disse: “Là” e indicò il tumulo.
Quando si rimise alla sua cena, io tornai a impastare la farina e guardavo il tumulo, una lieve speranza mi stava sostenendo, sennonché di colpo rammentai quanto Johannes aveva detto: che quella persona sarebbe tornata. Eccolo in contraddizione. Aveva mentito, pur di non ammettere l’esistenza di Mariam. Ossia, ammetteva che io fossi lebbroso e che quella capanna mi spettasse di diritto, ma non voleva ammettere l’esistenza di Mariam.
“Johannes,” dissi “e quando tornerà?”
Mi guardò sorridendo, scosse il capo, e disse che questo non poteva dirlo nessuno.
Segnavo i giorni col temperino su un palo della capanna, c’erano già diciotto tacche. Altre sei tacche indicavano i giorni trascorsi dall’inizio della licenza e, quando le tacche fossero state quarantasei (perché, oltre il mese, calcolavo i giorni dell’ipotetico viaggio in Italia, andata e ritorno), avrei dovuto considerarmi disertore: un’imputazione di più. Ma prima di quel giorno avrei davvero lasciato il villaggio diretto a Massaua, dove nessun capitano di carretta mi avrebbe negato un imbarco, disponendo io ormai di tanto denaro. Lo contavo spesso, erano settantamila lire, e lo tenevo nello zaino, ben chiuso nel necessario della toletta, per impedire che qualche topo (ne avevo visto di molto grossi girare attorno alla capanna), lo rosicchiasse. Non mi fidavo nemmeno del mulo della Sussistenza, sempre pronto a divorare qualsiasi cosa.
Il mulo della Sussistenza ingrassava, certo per effetto di quella vita libera che ormai poteva condurre. Non era più la bestia morente che avevo incontrato sul sentiero ventun giorni prima; lo vedevo più vivace, sempre occupato a sferzarsi vigorosamente i fianchi con la coda gialliccia. Da tempo gli avevo tolto la catena, ora teneva persino il collo eretto e il pelo cominciava a farsi lucido e la pelle a tendersi, al contrario di me che sentivo di dimagrire. Era un curioso animale e credo che mi considerasse un intruso, più severamente di Johannes, col quale ero ormai riuscito a stabilire una prudente cordialità. Quando Johannes scendeva all’affluente con la sua latta da petrolio, il mulo lo seguiva. Succedeva che Johannes partisse senza avvisarlo (e credo che lo facesse per vanità), e subito la bestia spiccava un trotto maldestro, scomparendo tra le piante, dietro le orme del suo ospite, sordo ai miei richiami. Immagino che Johannes gli procurasse il nutrimento, e perciò quell’affezione senza riserve.
Siccome spesso Johannes si intestava a tagliare i suoi pali (un lavoro che non portava mai a termine), il mulo smetteva di scortecciare gli alberi e andava a osservare. Sino a che, facendosi troppo insistente la sua curiosità, Johannes non lo scacciava col solito colpo ben assestato sulla groppa. Eppure si volevano bene e più d’una volta un inspiegabile sentimento molto affine alla gelosia mi aveva guastato il soggiorno laggiù. Una volta il mulo spinse la sua diffidenza verso di me al punto da rifiutare un pezzo di pane che gli porgevo, felice subito dopo di farsi bastonare dal vecchio. Stimando, allora, che il suo soldato l’avesse avvezzo a quel regime, un giorno tentai anch’io di bastonarlo, ma dovetti convincermi che potevo facilmente restare vittima della sua vendetta. Perciò fui sorpreso, il pomeriggio del ventunesimo giorno, quando il mulo venne a strofinarsi alla mia spalla e si accosciò vicino alla capanna, incurante di Johannes che borbottava parole a lui certo comprensibili.
Ero stanco di guardare la valle dal ciglio dello spiazzo. Decisi, quel giorno, di avventurarmi sino al torrente, e forse sino alla scorciatoia, o fors’anche sino alla strada, per vedere qualche autocarro. Vederlo soltanto. Feci cenno al mulo di levarsi, presi la mia coperta, gliel’adattai sulla groppa, con la catena e la corda improvvisai le briglie. Il mulo lasciava fare e infine mi portò docilmente, accettava la proposta di una passeggiata. Anzi, sembrava avesse voluto sollecitarla. Camminò svelto e appena ogni tanto si fermava a strappare qualche cespuglio meno secco degli altri.
Però, arrivato al torrente, ero già stanco di quella passeggiata e cominciai a vederne i pericoli. Non potevo fidarmi né del mulo, né della mia nostalgia per le strade percorse da autocarri. Scesi e il mulo si abbeverò a una pozza, la stessa in cui Mariam s’era lavata quel giorno.
Ogni volta che il mio pensiero tornava a Mariam, dovevo frenare sulle labbra l’insulto che il rancore mi dettava. Ero giunto, un giorno, a compiacermi di averla uccisa, risparmiandole così la sorte degli altri abitanti del villaggio; ora mi rimproveravo persino quella pietà postuma. Eppoi, dicevo, non l’avrebbero uccisa. Anche lei quel giorno sarebbe andata sull’altopiano con Elias e col vecchio della tribù, poiché il vecchio non s’era recato nella cittadina soltanto per cercare lei. Vi sarebbe andato egualmente. Se vi si fosse recato soltanto per lei, i giovani non avrebbero suonato e danzato quella mattina, passando nella boscaglia. “Quindi,” dicevo “eliminiamo la seconda proposizione e diciamo semplicemente che mi compiaccio di averla uccisa. Lei aveva ucciso me; e, senza quella malaugurata - anzi, provvida - bestia, il suo delitto sarebbe ora impunito.”
Mi compiacevo, dunque, di averla uccisa. E non ricordavo più il lungo lamento che le era sfuggito quando avevo preso la mira, quell’accorato lamento strappato dalla paura e dall’incredulità.
Mi avvicinai alla tomba e stentai a riconoscerla; il vento aveva livellato il terreno e tolto qualche cespuglio. Nessun odore sospetto. La riconobbi dalle pietre. Davanti a quelle pietre, svanì ogni rancore e mi sorpresi a ricordare i momenti di quella giornata, il corpo di lei morbido e sfuggevole, che si faceva immenso e poi piccolo tra le mie braccia, quel sangue denso che batteva alla gola e sul seno. E la mano messa pudicamente sulle labbra quando la costringevo al riso coi miei disegni. Da quel sangue e da quella mano venivano tutte le mie sventure e altre ne sarebbero venute, non potevo immaginare quante.
La rivedevo avanzare sul sentiero, sorridente e lontana, e la sentivo anche innocente. Cercavo allora nella memoria in quale altro modo aveva potuto infettarmi, ma non trovavo. Mariam. era stata la prima e l’ultima. Non avevo toccato indumenti di indigeni, eccetto la sua veste che m’ero accuratamente avvolta sullo sgraffio, e soltanto in casa di quella Rahabat ero stato due volte, da innocuo visitatore; ed era una casa abitata da persone sane e anche pulite. Eppure, non riuscivo a dissipare, davanti a quella tomba, il dubbio che Mariam fosse innocente (benché tutto l’accusasse): e quindi a dissipare la speranza che il mio male fosse soltanto immaginario. Se Johannes avesse parlato! Ma da quel vecchio ormai non speravo più nulla. Eppoi, non esistevano le mie macchie, la mia piaga, non esisteva la capanna migliore delle altre e quel versetto che l’ignoto pittore aveva dedicato a me, ricordandomi che vivevo ancora in Dio? “Andiamo, “ dissi “i tuoi dubbi stanno superando ogni discrezione” e mi sedetti vicino alla tomba.
Benché annusassi, non sentivo nessun odore. No, quei fetori dolciastri che m’avevano angustiato un tempo, erano soltanto un parto della mia scossa immaginazione. Non esisteva una vendetta di Mariam, più che non esistesse un mio delitto. Dovevamo perdonarci a vicenda. Lei era morta, io stavo trascorrendo in quella lurida valle la licenza che mi aveva suggerito di abbreviare la sua fine: se non sbaglio, era questo il succo della sua vendetta. Vi aveva aggiunto le piaghe, la capanna che abitava e che era indubbiamente migliore delle altre.
“Cara Mariam,” dissi “se non avessi deciso di andarmene uno di questi giorni - forse lunedì -, l’abiterei volentieri: e mi servirebbe stare vicino al fiume, potrei lavare le mie piaghe senza togliere acqua al vecchio. Tra quegli alberi cupi godrei di un’ombra molto simile a quella che è scesa sulle tue palpebre, quando ti ho acconciato il turbante sul viso.”
Parlavo ad alta voce e il mulo venne a strofinarmisi dietro le spalle. “Ammetto,” seguitai “che la tua vita valesse qualcosa, se in cambio mi offri persino ciò che non ti ho chiesto: l’ospitalità. Eppure, non mi sembrava che valesse tanto la vita di una persona che si incontra per sbaglio - sì, per sbaglio -, la vita di una persona che ci è sembrata qualcosa di più di un albero e qualcosa di meno di una donna. Non dimentichiamoci che eri nuda e facevi parte del paesaggio. Anzi, eri qui a indicarne le proporzioni.”
Mi levai in piedi. “Non devi rammaricarti” conclusi. “Il dottore del cantiere non sarebbe venuto, non aveva l’aria di chi lascia il letto per la boscaglia alle cinque del mattino.”
Il mulo mi colpì con la testa, facendomi quasi ruzzolare. Ero, in fondo, soddisfatto che si ricordasse di me e gli parlai a lungo, insultandolo, era una buona occasione per parlare. Quindi, gli saltai in groppa. Prese a trotterellare verso la collina e vi arrivammo quasi di corsa. Sedetti davanti alla mia capanna e ancora una volta il pensiero tornò a Mariam, quasi con dolcezza, ricordavo il suo sonno discreto e il peso gentile delle sue membra. Vi pensai sino a che Johannes non venne verso di me. Veniva lentamente e certo già stava meditando che cosa doveva dirmi, ma giunto a pochi passi dalla capanna, ristette e andò verso il ciglio dello spiazzo.
Dopo aver guardato la valle per un buon tratto, ritornò e si mise a sedere sul tumulo, e poi improvvisamente chiese:
“Dove sei stato?”.
Non risposi nemmeno. Lo guardai seccato, perché intendesse che non gli dovevo spiegazioni di nessun genere e che, se ero stato tanto debole da fornirgliene il primo giorno, ora avrei rintuzzata la sua curiosità. Potevo andarmene anche subito, m’ero rimesso in forze, e stesse al suo posto.
Johannes non insisté, e a passi dinoccolati tornò al suo lavoro. Lavorava ora con insolito vigore, levava alto il braccio e colpiva giusto, senza incantarsi a guardare le cose dello spiazzo, certo la mia muta risposta l’aveva disorientato e ora sfogava in quel modo la sua stizza. Dopo qualche istante era stanco e si riposò e stavolta senza guardarmi, a bassa voce, ripeté la domanda.
“Johannes, non è faccenda che ti riguardi” dissi cortesemente, benché questa menzogna mi facesse sorridere. Ma non potevo dirgli ch’ero stato alla tomba della persona che “sarebbe tornata” e che lui attendeva. Anzi, se mal tollerava la mia presenza al villaggio era proprio perché aspettava, suppongo, il ritorno di Mariam.
Johannes parve soddisfatto della mia risposta e seguitò a lavorare, ma come al solito, colpendo i pali stancamente, guardando in giro, distraendosi col mulo, urlandogli le solite frasi. Soltanto molti giorni dopo avrei apprezzato la perfidia della sua domanda. Sorrisi, invece, vedendo Johannes perdersi nel suo interminabile lavoro e poiché stavo frugando nello zaino, presi la Bibbia e cominciai a leggere a caso. Lessi una pagina di Proverbi e due pagine dell’Ecclesiaste, e poi ancora qualche pagina di Proverbi. Mi accorgevo, leggendo, che quei versetti prendevano vita laggiù, in armonia con le cose che mi circondavano: con quelle capanne, con quella natura scarna. E con Johannes, profeta senza popolo, che aveva nelle ossa la verità di quelle sentenze senza conoscerne una. Johannes era un saggio e nemmeno sapeva di esserlo. Aveva bandito il mondo da sé e viveva accanto ai suoi morti, senza sgomentarsi al calar della sera, anzi aspettando le sue ombre, che gli riconducevano altre ombre più care.
Era questa la sua forza, la forza di stare accanto ai suoi morti e di vivere con essi gli ultimi giorni. Egli non se lo poneva come una penitenza, per meritarsi un Paradiso, ma per sentirsi in buona compagnia. Gli era parso assurdo privare il villaggio delle persone che l’avevano abitato e con le quali aveva trascorso giorni più lieti. I suoi ricordi erano custoditi nello spiazzo e la mattina, svegliandosi, anche il primo sguardo di Johannes era per il tumulo. Durante il giorno, racconciava le pietre cadute, ne metteva altre, lasciava che le pietre crescessero là sopra, senza curarsi se il mulo andava poi a piluccarle. Non era un custode.
Pensavo che questa sua forza io l’avevo perduta né avrei potuto riacquistarla, e pensavo agli squallidi cimiteri delle nostre città, dove seppelliamo coloro che un giorno prima avevano gli stessi nostri occhi e lo stesso nostro sorriso, e così in fretta, da sentirli poi estranei per sempre, povera materia corruttibile. Johannes si levava dal suo giaciglio e, benché non l’avessi mai visto in atteggiamento di preghiera, pregava per i suoi morti. Quel borbottare che sentivo all’alba, proveniente dalla sua capanna, erano preghiere. Spesso si sedeva sul tumulo e seguitava là ad aguzzare i suoi interminabili pali.
Non osavo immaginare gli ultimi giorni di Johannes in quel villaggio deserto, quando io me ne fossi andato. Sarebbe morto d’inedia, incapace di procurarsi il cibo e il suo corpo insepolto sfamerebbe anche i topi. Questo pensiero mi spingeva ad affrettare la partenza, ad anticiparne il giorno che avevo ormai fissato. Sarei andato via tra cinque o sei giorni. Povero Johannes, dicevo. Ma forse Johannes aveva superata l’età della morte.
Me ne sarei andato. Ero un intruso, tra quei cadaveri. Io ero, semmai, un cadavere diverso, anelavo ancora alla vita. Perciò il villaggio era contro di me, come del resto tutta la valle. Anche quei versetti che leggevo erano contro di me, mi accusavano con l’insistenza e la crudeltà delle parole semplici che improvvisamente riacquistano il loro significato. Ero un assassino, un ladro, un malato, un uomo colpito dalla collera divina. E ancora inseguivo le vanità. Ero anche un fuggiasco e, per Johannes, un nemico. Perciò Johannes taceva e si dava arie insolenti. Aspettava che lasciassi quel luogo, che mi accorgessi una buona volta che la mia presenza offendeva lui, gli alberi, le capanne, i morti. Se fossi restato a lungo, qualcosa dal profondo della sua natura lo avrebbe spinto al gesto che lui stesso temeva, a scannarmi: con lo stesso coltello che adoperava per acconciare i pali e tagliare le erbe. Avrebbe dimenticato per un attimo il rispetto dovutomi, la parola e l’esempio dei suoi venerati ufficiali e mi avrebbe scannato, forse con la testa rivolta a Oriente, sulla tomba del villaggio. Avrei appena sentito la sua mano sul collo, quella mano di ferro mangiato dalla ruggine. Non sarebbe valso a nulla spiegargli che dovevo vivere per tornare da Lei e rivedere ancora una volta il suo sorriso inondato di lagrime. Johannes non si sarebbe lasciato sedurre da una scusa tanto personale.
“Bene,” aggiungevo “mi scanni. Tutte le mie sciagure saranno annullate con un colpo solo. Ma è possibile che Johannes, se ha deciso di vendicarsi, non vorrà farlo con arte, seguendo i consigli di questa natura che lo circonda? E perché escludere che Johannes sia incapace del male, che sia un santo anacoreta? Un santo” concludevo “al quale il governo italiano non dà invano la sua pensioncina?”
Mi venne dinanzi, sedette sui talloni e con voce quasi affettuosa, ripeté: “Dove sei stato?”.
L’ira mi salì agli occhi. “Johannes,” dissi tremando “non dimenticarti chi sono.” Allora si levò lentamente e abbozzò con la mano un breve saluto militare.
C’erano troppi uccelli tra gli alberi che circondavano la capanna. Il loro incessante borbottare m’impediva persino di svegliarmi, Piombandomi in affannosi dormiveglia, dai quali uscivo sfinito. Erano uccellacci di un color cupo, simili a corvi, ma più agili, e di umore meno triste, inclini anzi alla compagnia. Entravano spesso nella capanna e, a volte, dovevo cacciarli a colpi di bastone. Dei miei strilli poco si curavano. Sì, questo era uno svantaggio, ma sotto ogni altro rispetto, quella era la capanna migliore. La notte vi spirava persino un fresco venticello. Però quegli uccellacci erano, in fondo, una buona compagnia. Quando la disperazione mi assaliva e, sdraiato sul pavimento, lasciavo che i singhiozzi mi liberassero dall’affanno, eccoli apparire sulla soglia, a gruppetti, guardandomi di sbieco, come galline. Si avvicinavano e volentieri avrei accettato la loro simpatia se il selvatico fetore che emanavano non mi avesse sempre costretto a rinunciarvi. Dovevo cacciarli. E tener chiuso lo zaino, perché rubavano volentieri.
Mi chiedevo se era quella la rassegnazione, quel vuoto aspettare, contando i giorni come i grani di un rosario, sapendo che non ci appartengono, ma sono giorni che pure dobbiamo vivere perché ci sembrano preferibili al nulla.
Levando gli occhi al soffitto, spesso osservavo la pittura funesta sopra l’arco della porta e tra me ripetevo le parole del cartiglio, che mi condannavano con tanta unzione. L’Arcangelo aveva il viso tondo e stupito che gli artisti indigeni fanno invariabilmente ai loro modelli. Invece di badare al dragone, che stava trafiggendo, guardava fisso davanti a sé, ossia mi guardava. Da qualsiasi punto osservassi la pittura, gli occhi tondi dell’Arcangelo mi fissavano. Niente di strano. Ma quegli occhi erano insopportabili per l’idiota fiducia che esprimevano. Il dragone (quel goffo coccodrillo) s’era piegato sotto la spinta della lancia e l’Arcangelo non vi badava affatto, tutto preso in un pensiero molto elementare. Forse non pensava a nulla, sapeva già in anticipo della sua vittoria e non ne traeva la minima soddisfazione. Non era una lotta ma un’esecuzione, un modo di provare la robustezza della lancia e l’abilità del cavallo. “Troppo facile,” pensavo “non si uccide il dragone ogni giorno. Se questa vuol essere un’allegoria, bene. Ma si provi l’Arcangelo a uccidere gli invisibili dragoni che pullulano nel mio sangue e in queste piaghe maledette. Contro questi minuscoli dragoni non valgono le lance, solo il tempo li uccide, ma uccide anche chi li porta.” Ancora mi riprese, quel giorno, lo sconforto per il triste destino che m’era riserbato. Gli occhi mi si empirono di lagrime e stavo per cedere alla commozione quando, tra le ciglia di piombo, vidi avanzare un’ombra sul sentiero. Non riuscii a muovermi. Forse non volevo muovermi o ero troppo stanco per tentare. Sotto la buia cupola, l’ombra si distingueva appena. Era Elias.
“Buon giorno, signor tenente” disse quando ebbe raggiunto gli scalini. Mi levai di soprassalto e, nel vano della porta, piccola sagoma scura contro il nero delle foglie, Elias si arrestò impettito, la mano destra sulla fronte, la bocca allargata nel suo più vasto sorriso.
“Elias” dissi, e il primo moto fu d’abbracciarlo, come un fratello ritrovato, e seppi trattenermi a tempo; ma ero felice e questo non volli nasconderlo. Balzai in piedi e cominciai a tempestarlo di domande, nemmeno lasciandogli il tempo di rispondere. Sommerso da quell’inaspettata accoglienza, Elias mi guardava diffidente e anche stupito, chiedendosi soprattutto la ragione della mia presenza al villaggio. Questo capii che pensava appena fummo sullo spiazzo. Evitava di guardarmi, imbarazzato di vedermi così malridotto, la barba lunga, la camicia ormai a brandelli e senza i segni del grado. Da tempo immemorabile avevo gettata la cravatta. E il casco, che non trovavo più, doveva esserselo mangiato il mulo della Sussistenza.
Elias invece era ben messo nella sua divisa racconciata. Sul capo ostentava una bustina militare e al polso un orologio, segno questo che i suoi guadagni prosperavano. Gli chiesi da quanto tempo non vedeva il contrabbandiere.
“L’ho visto ieri” rispose.
“Dove, Elias?” Con la mano indicò il ciglio. “Là” disse. Aggiunse che tutti erano là, sul ciglio, nel vecchio campo, da una settimana. Quello, dunque, l’atteso, sospirato spostamento? “Misteri dei contrordini” pensai, e sorrisi. Ma immaginavo il loro sconforto.
“Tu sei con loro?”
Scosse la testa per dire di no, con orgoglio. Era libero, indipendente, viaggiava per suo conto, e cominciava a provare le prime gioie dei guadagni indivisi. Per un attimo lo invidiai e quella sua sicurezza, da uomo già fatto, mi indispettì persino. Ora parlava l’italiano quasi correntemente senza usare i verbi all’infinito, mischiandovi parole di tutti i dialetti. Mentre parlava, Johannes gli frugava nel tascapane, ne trasse qualcosa che infilò nella toga, il resto cincischiò appena con disprezzo, senza toglierlo. Lasciato il tascapane a terra, lo vidi che tornava verso la sua capanna.
Elias restava in piedi, non si liberava nemmeno della giubba, eppure il caldo era insopportabile. Restava in piedi, come il parente che vive in città, torna a casa tra un treno e l’altro e osserva i luoghi della sua giovinezza con stupore e fastidio, anelante di riprendere il suo posto tra le persone della nuova vita quotidiana. Non si toglieva la giubba appunto per significare che si sarebbe fermato solo il tempo necessario a una visita di cortesia; e ci avrebbe lasciati, me e Johannes, come si lasciano le vecchie parenti, che ricordano troppe cose della nostra infanzia e non sanno nulla del nostro presente e perciò alle loro maldestre domande non si sa che rispondere, incerti se lasciarle nella loro ignoranza, oppure sconvolgere il concetto che hanno di noi. Era venuto a visitare il vecchio, forse a portargli un po’ di denaro, un po’ di pane, e quel misterioso oggetto che Johannes s’era affrettato a nascondere nella sua capanna. Ora se ne sarebbe andato, felice di lasciare la desolata natura che l’aveva visto nascere e che adesso poteva dargli soltanto il timore di una immeritata prigionia. Stava in piedi e già cercava le parole del saluto, per andarsene e raggiungere l’altopiano col suo tascapane.
“Hai sigarette?” gli chiesi.
“No, finite” rispose. Gli dispiaceva, ma come al negoziante che mitiga con un sorriso di cortesia il suo rifiuto. La prossima volta, diceva il suo sorriso. “Cos’hai nel tascapane?” chiesi sperando di acquistargli qualcosa; e così acquistai scatole di frutta e di marmellata. Non voleva prendere il mio denaro; ma sembrò soddisfatto, quando ve lo costrinsi. “E nemmeno una sigaretta!” dissi.
“No, signor tenente.” Gli chiesi se sarebbe tornato, e quando. Alzò le spalle, non dipendeva dalla sua volontà, ma dalle occasioni. Ci sono autisti che non badano e fanno salire i bambini, altri che non vogliono; carabinieri che ridono, altri che danno colpi di frustino alle gambe; soldati che acquistano, e altri che urlano appena interrogati. Sarebbe tornato ad Asmara, e là si rifornirebbe. Poi, tra una settimana, un mese, due anni, tornerebbe. O forse mai.
Johannes ci lasciava soli, e ora stava dicendo qualcosa al mulo, che l’infastidiva.
Quando il bimbo si avvicinò a lui, vidi che gli carezzava la testa, ma senza guardarlo.
Pensai di mandare un biglietto al contrabbandiere; ma, dopo aver riflettuto, decisi che non era prudente fidarsi di nessuno. Immaginiamo che il contrabbandiere non sappia tenere il segreto, lo confidi al suo più caro amico, e la sera stessa se ne parla ad Asmara. No, niente biglietto. Decisi allora di scrivere a mia moglie e ritornai verso la capanna. Elias mi seguì.
Torme di uccelli avevano invaso la capanna, e non fu facile scacciarli, si ostinavano a restarvi, anche dopo che ebbi preso il bastone e colpito alla cieca. Salivano verso il soffitto, dove non potevo raggiungerli, e quindi eccoli daccapo sul pavimento, che già avevano lordato. Non ci si vedeva, nella capanna, e dovetti ritornare sullo spiazzo per scrivere. Presi un foglio di carta, cercando di toccarlo il meno possibile. Ma non trovavo le parole e quella lettera mi stava sembrando superflua. Che le avrei detto? Eppure, non potevo sciupare un’occasione simile. Le avrei scritto, sì, tra cinque o sei giorni, una volta partito dal villaggio, ma era prudente profittare della visita del bimbo. Quando tentai di scrivere, mi accorsi che l’inchiostro della penna s’era raggrumato, vi dovetti aggiungere un po’ d’acqua: quelle righe sbiadite avrebbero aumentato le apprensioni di Lei, pensavo. Ripetei quanto avevo scritto a Massaua. Ma, nel consegnare la lettera a Elias, pensai che la posta diretta a Lei verrebbe censurata e che avrei perciò fornito indicazioni a chi mi cercava. Probabilmente, dopo un mese o due, non facendomi vivo, qualcuno avanzerebbe l’ipotesi del mio suicidio. “Un uomo finito” direbbero. “Ha fatto quel che al suo posto faremmo noi.” Ma non potevo lasciarla senza mie notizie, così decisi di scrivere a sua madre, firmando con un altro nome. Avrebbe capito.
Il bambino si allontanava lungo il sentiero della collina e io soltanto restavo a guardarlo. Johannes s’era ritirato nella capanna, per sfuggire al sole che batteva lo spiazzo. Il bimbo si allontanava, saltellando; e, allorché si volse, fece un largo saluto con la mano, da pari a pari. Riprese a saltellare, era arrivato già al sentiero della boscaglia quando lo chiamai. “Aspettami” gridai. Feci di corsa il sentiero. “Ridammi la lettera.”
Frugò nel tascapane, senza sorpresa, e non si sorprese nemmeno quando vide che la strappavo. “Senti, Elias” dissi. Mi sedetti, invitandolo a sedere. Gli feci un lungo ingarbugliato discorso. Doveva rammentare questo: io non ero al villaggio. Non mi aveva visto. Non sapeva niente di me. Quando ebbi finito, accennò di sì con la testa e scopersi nel suo sguardo qualcosa di nuovo: non tanto la curiosità di sapere cosa m’era successo, quanto la certezza che ero ormai un essere debole e indifeso. I miei uomini non mi ubbidivano più, pensava. Ero stato vinto, spodestato, ed egli poteva permettersi di proteggermi e di ascoltare le mie raccomandazioni, da uomo a uomo. Tradì questi suoi pensieri con un mugolìo sostenuto.
“Non dirai a nessuno che mi hai visto?”
“No, a nessuno.”
“E non potresti tornare domani con qualche pacchetto di sigarette?”
Si faceva pregare. Domani, no. Dopodomani, nemmeno. Sentiva di valere qualcosa ai miei occhi, ma la sua vittoria lo lasciava persino indifferente. Contò con le dita. “Tra quattro giorni” rispose.
“Quattro giorni.” Mi alzai in piedi. “Ti aspetto” dissi. Si allontanò, ma stavolta senza saltellare, padrone del sentiero, piccolo David che aveva vinto il gigante e ora tornava ai suoi commerci.
Ritornai sul ciglio e stetti a guardare l’altopiano, pensando con struggente tenerezza agli amici di lassù, e poi alla “pratica” col mio nome che giaceva ormai tra le carte della fureria. Sempre più lontano mi sembrava quel ciglio che a Elias era dato di raggiungere e che anche al mulo era dato di raggiungere, se non si fosse ostinato nella sua ammirazione per quei luoghi e per il suo burbero vecchio.
Dopo la visita alla tomba di Mariam, Johannes non mi aveva più rivolto parola e da quattro giorni vivevamo ignorandoci. Avevo anche tentato di farlo parlare, aveva sempre risposto con cenni del capo e con brevi parole appena borbottate, ma senz’astio, sicché tra noi era calata l’indifferenza dei naufraghi che non sperano nessun aiuto e si guardano morire. Spesso cercavo la ragione di quella sua insistenza nel chiedermi dov’ero stato quel giorno. Non poteva certo sapere della mia sosta alla tomba di Mariam, la sua curiosità era dunque inaccettabile. Se gli avessi soltanto risposto sarei apparso ai suoi occhi più spregevole del mulo che ora pascolava sul tumulo dello spiazzo. Non mi pentivo, dunque, di aver rintuzzato la sua indiscrezione, anche se ora mi vedevo costretto a rimpiangere le nostre brevi e nemmeno piacevoli conversazioni dei primi giorni. E anche se dovevo recarmi all’affluente e riempirvi la latta, ora che m’ero allogato nella capanna circolare. Del resto, sostare sulla riva e guardar correre l’acqua mi era di conforto. Ma Johannes girava per lo spiazzo senza vedermi, e non sentiva affatto il bisogno, come io lo sentivo, di cogliere i lievi pretesti che offriva la vita laggiù per conversare. Il suo stato naturale era ormai la solitudine e forse l’incidente gli aveva fornito l’occasione di ripiombarvi e di punirmi nell’unico modo che sapeva efficace. Stava lontano dal villaggio per ore, e il mulo lo seguiva. Che non andassero sull’altopiano o al ponte, era certo, sempre avevo cura di seguirli per un buon tratto, evitando di farmi scorgere. Andavano forse a riposare nella boscaglia, lasciandomi per interi pomeriggi in un’ansia che spesso ero stato sul punto di interrompere con la fuga. Ma, tutte le volte che m’ero accinto a preparare lo zaino, m’ero via via placato con qualche nuovo ragionamento. Ormai parlavo da solo ad alta voce, mi davo consigli scherzosi e anche ridevo, e forse quelle futili parentesi mi impedivano di impazzire o di correre al primo comando, là sul ciglio, e dire: “Eccomi”.
Quando Johannes ritornava dalle sue gite, mi sentivo meglio e ritornavo nella mia capanna.
Ora il vecchio era fermo appunto davanti alla mia capanna, guardandomi tornare. Guardava me, non c’era dubbio. Credetti che quest’insolito atteggiamento fosse giustificato dal ritorno di Elias e che desiderasse parlarmi del bimbo, cogliendo l’occasione per rappacificarci. Allungai il passo e lo raggiunsi. Aspettavo che parlasse per primo, ma non parlò. Quando gli sorrisi (volevo varcare la soglia della capanna e scacciarne gli uccelli), egli fece una breve smorfia e alzò le spalle. Non fui capace di salire il primo scalino e guardai Johannes. Era in piedi, appoggiato con ambo le mani al suo lungo bastone, come un lanciere in riposo: e seguitava a fissarmi. In quelle tenebre vedevo appena i suoi occhi giallicci, acquosi. Non sembrava affatto preoccupato della mia sorpresa e, anzi, sempre più insolente, e a un tratto mi strizzò l’occhio. L’oscurità può avermi ingannato, ma strizzò l’occhio e non per scacciare una mosca. Seguitò per una, due, tre volte a strizzarmi l’occhio.
“Johannes,” gridai “smettila!”
Il suono della mia voce lo scosse. Lo vidi tremare, come colpito da febbre repentina. Poi gettò un urlo forsennato, un urlo che mi ghiacciò il sangue, era l’urlo che aveva in gola da molto tempo. Levò alto il bastone afferrandolo con le due mani e si lanciò contro di me. Feci appena in tempo a evitare che mi spaccasse il cranio. Il colpo calò in parte sulla mia spalla, Johannes cadde a terra, trascinato dal suo stesso impeto e il bastone gli si ruppe. Si rialzò di scatto e allora fuggii sullo spiazzo. Lo sentivo alle calcagna, urlante, raccolsi un palo e con quello tenni a bada il vecchio. Subito raccolse anch’egli un palo, non potei impedirglielo, e mi fu addosso. Mi difendevo, ma le sue urla, urla di guerriero che insulta e sfida la morte, mi stavano togliendo ogni coraggio. Così avevo visto lanciarsi contro la mitragliatrice i suoi fratelli, con bastoni anche meno solidi: e non sempre la mitragliatrice li aveva fermati.
Tutta la mia scherma stava cedendo davanti a quell’ossesso e allora capii che se mi fossi limitato a difendermi, il giorno stesso sarei finito nell’affluente. Cominciai a urlare anch’io, urla che trovavo da paure profonde e che mi spaventavano, dandomi però una forza nuova e inebriante. Quando Johannes mi colpì per la seconda volta alla spalla (e il dolore mi fece trattenere il respiro), gli fui addosso e gli calai il palo sulla testa, con tutta la mia forza. Si fermò imbambolato, poi cadde di schianto, l’urlo divenne lamento, poi subito si tacque. Credetti di averlo ucciso e cominciai a tremare, smarrito, balbettando. Lo chiamai più volte.
Dopo un attimo Johannes era in piedi, livido, più alto di quanto l’avessi mai visto. Un filo di sangue denso gli colava sul viso da una ferita alla fronte. Allora gettai il palo per mostrargli che non volevo più colpirlo e che vi ero stato costretto solo dalla sua minaccia. Mi guardava, ansante, gli occhi sporchi di sangue. Un po’ barcollando si diresse verso il ciglio dello spiazzo e infilò di corsa il sentiero. “Johannes!” gridai.
Non mi ascoltò, anzi affrettò la corsa. Allora dovetti raggiungerlo, voleva certo recarsi a denunciarmi e non potevo lasciarlo andare. Lo afferrai per le spalle, lo scongiurai di tornare indietro. Risa isteriche uscirono dalla sua bocca e gli squassavano il petto: coi pugni secchi e nodosi tentò di colpirmi al viso e dovetti afferrarlo ai polsi, ma li sentivo più forti delle mie mani e stavo per abbandonare la presa, sfinito, quando Johannes si accasciò a terra sempre ridendo. Mi chinai per soccorrerlo e un forte fiato di cognac mi respinse, era ubriaco, e ora quel sole abbacinante stava compiendo l’opera. Seguitò a ridere e urlare e a dar calci, ma sempre più debolmente, finché si assopì. Non potevo lasciarlo sul sentiero assolato e dovetti caricarmelo sulle spalle, risalire la collina, depositarlo nel suo lettuccio togliendone prima una bottiglia, che aveva completamente vuotata.
La ferita alla fronte non era profonda. La lavai e vi sparsi le poche gocce di cognac che erano rimaste nella bottiglia. Ora Johannes dormiva profondamente e, a tratti, lo sentivo ridere.
Fu sentendolo ridere (un riso aspro e prolungato, molto simile a quello che il vento portava la notte da luoghi lontani), che decisi di ucciderlo. Dovevo ucciderlo e andarmene: sarebbe stato da sciocchi fidarsi di quel vecchio, che avevo ormai esasperato.
Johannes dormì sino al pomeriggio e per tutto il tempo stetti nella sua capanna a vegliarlo. La ferita non era preoccupante, ma quando Johannes si svegliò e vide che gli sorridevo fece l’atto di levarsi e cominciò a insultarmi. Lo rimisi a giacere, pazientemente, e gli porsi la scatola colma d’acqua. Mentre beveva non staccava gli occhi dal mio volto e, quando ebbe vuotata la scatola, mi ringraziò.
Voleva levarsi a ogni costo, con l’esasperata energia degli ubriachi al risveglio, ma lo costrinsi a restare nella sua capanna e gli preparai la cena. Non mi preoccupavo di toccare le sue stoviglie o il suo pane, la mia lebbra l’avrebbe semmai raggiunto nella tomba, non prima. Aprii una scatola di marmellata e la divorò, si faceva trattare come un bimbo malato. Se mi allontanavo, subito sentivo la sua voce chiamarmi. Mi chiamava: tenente. Forse in questo subitaneo cambiamento gran parte aveva avuto la mia difesa e quel colpo che rimpiangevo di avergli dato, ma che Johannes non poteva esimersi dall’ammirare. Era stato un colpo rapido, preceduto da una finta, un comune colpo di quinta alla testa, ma Johannes l’aveva apprezzato. Ora mi fissava con sorridente rispetto, a meno che il suo contegno non gli venisse dettato dalla rivoltella che portavo al fianco.
Sembrava, dunque, essermi diventato improvvisamente amico, ma non potevo fidarmi di questo mutamento, che mascherava certo un odioso tranello: il giorno dopo, fingendo di recarsi al fiume, avrebbe preso sorridendo la via dell’alto piano. Non era tipo da perdonarmi. Quel suo profittare dei miei rimorsi per farsi servire me lo confermava in pieno.
Aspettai, dunque, che si riaddormentasse e preparai una lettiga intrecciando rami freschi ai pali di Johannes. Avrei dovuto portare il cadavere all’affluente, per nascondere ogni traccia, benché nessuno, eccetto Elias, si sarebbe mai chiesto dove fosse finito il vecchio. Chi avrebbe dato retta a un bimbo? Anzi, lo stesso Elias non si sarebbe meravigliato della scomparsa del vecchio. E io non potevo rinunciare al vantaggio acquistato sui miei inseguitori.
Dopo mezz’ora la lettiga era pronta.
Stavo per avvicinarmi alla capanna, quando mi accorsi che non avrei sparato. Non avrei potuto sparare; e non per repulsione, ma per impotenza. Fallito il colpo del dottore e poi quello del maggiore, mi sentivo incapace di affrontare daccapo la prova. Più volte tentai di entrare nella capanna di Johannes e sempre ne uscii sconfortato. Il bersaglio era là, a occhi chiusi, respirava appena, non si sarebbe mosso, non avrebbe mosso nemmeno la testa, eppure la mia mano si rifiutava di stringere l’arma. Restavo sulla soglia, impaziente, dicendomi che quel vecchio inutile poteva mandare all’aria il mio imbarco e che, dunque, bisognava ucciderlo. “Sì,” dicevo “ucciderlo. Ma non ci riuscirò.”
Presi a camminare su e giù per lo spiazzo, cercando di convincermi con ragionamenti che apprezzavo ma che sempre più mi toglievano forza. “Capisco,” dicevo “ma non lo farò.” E rispondevo: “Coraggio, devi tentare, non devi abbatterti”.
Dopo un’ora di simili snervanti meditazioni, arrivai a un compromesso. Non l’avrei ucciso, ma minacciato, soltanto, gli avrei fatto intendere che ero pronto a ucciderlo se avesse tentato di tradirmi. Lieto della mia risoluzione, disfeci la lettiga. Ma che cosa poteva importare a Johannes di morire? Ogni minaccia avrebbe soltanto fortificato il suo proposito. Meglio non offrirgli pretesti con le mie sciocche minacce. “Forse dimenticherà davvero” conclusi.
Verso sera, infine, decisi che sarei andato via dal villaggio l’indomani, era questa la maniera più sicura di placare il desiderio di vendetta del vecchio. Sarei partito lasciandogli il mulo (difficile, pensavo, convincere la bestia a seguirmi), e molto denaro. Johannes, capace di rifiutare cinquecento lire, avrebbe esitato davanti a cinquemila. Si sarebbe sentito improvvisamente ricco e mi avrebbe offerta l’altra guancia, perdonando.
Quella notte dormii vicino alla capanna del vecchio, per sorvegliarlo. Avevo preparato lo zaino, pronto a partire all’alba, ma quando l’alba si annunciò capii che mi mettevo in cammino malvolentieri e che non avrei facilmente trovato la forza di andarmene da quel villaggio, che pure detestavo. Erano ormai trascorsi ventisei giorni e la collina mi appariva come il luogo più sicuro, avevo commesso l’errore degli inseguiti che si trincerano e non sono più capaci di lasciare la tana, nella quale preferiscono morire piuttosto che tentare la sorte, uscendone. “Debbo andarmene” ripetevo guardando quegli alberi che ora mi sembravano amici, quella natura che lentamente emergeva dall’ombra notturna, quelle capanne che potevano ancora ospitarmi. “Se non vado via oggi è segno che non voglio più tentare e che davvero desidero finire la mia vita in questo luogo.”
Misi perciò lo zaino in spalla, presi dalla tasca il denaro ed entrai nella capanna di Johannes. Era sveglio, mi aveva sentito preparare lo zaino e aveva sentito anche i miei soliloqui. Ora stava ad aspettarmi, ben composto nel suo lettuccio. “Addio, Johannes” dissi. Lasciai il denaro su uno sgabello e annunziai che non portavo via il mulo. Lo tenesse pure. Come avevo previsto, Johannes guardò il denaro, lo contò e lo nascose tra le pieghe della sua veste. Sembrava soddisfatto. Ma non ringraziò, stette a guardarmi appena, poi mi tese la mano. Quando gliela strinsi, sentii che scottava. “Stai male, Johannes?” chiesi.
“No” rispose. E aggiunse: “No, signor tenente”. La sua voce era fievole, improvvisamente la voce di un vecchio indifeso. Mi sedetti sullo sgabello, vicino al giaciglio e non sapevo che fare. Dovevo fare qualcosa, prima di andarmene e allora gli scoprii la ferita: niente di grave, in pochi giorni si sarebbe chiusa. La pulii ancora attentamente; ma alla luce che già invadeva la capanna, vidi che Johannes era pallido, c’era un velo di cenere sul suo volto cotto dal sole. Forse era soltanto febbre causata da quella repentina sbornia. Gli feci inghiottire due pastiglie di aspirina e lasciai il tubetto che avevo chiesto, quel giorno, al pigro dottore, tenendolo poi nello zaino come pegno di un’amicizia nata senza fortuna: ed era giusto che restasse a Johannes, il mio implacabile nemico. “Addio, Johannes” ripetei, con voce che mi sforzavo di rendere lieta; e, quasi per calmare la mia apprensione (sempre abbandonavo qualcuno nella disgrazia), gli dissi che quel giorno stesso sarebbe guarito. Aggiunsi ai doni anche una scatola di marmellata.
Ora potevo andarmene.
Invece, restai. Tornerà Elias fra tre giorni, dicevo, e allora lascerò Johannes. Senza contare, aggiungevo, che Elias porterà le sigarette e mi eviterà di cercarne nei villaggi o di chiederne ai soldati che incontrerò. Molti sospetti di meno da lasciare lungo il percorso. Questo pensavo, ma in verità a trattenermi fu lo sguardo di Johannes quando, passata la soglia, mi volsi a salutarlo per l’ultima volta. Era uno sguardo che mi aveva già colpito; e in quel preciso istante seppi (non avevo mai approfondito la questione) che Johannes era il padre di Mariam. Non m’ero mai chiesto che cosa fosse Johannes per Mariam e ora lo sapevo. Sempre avevo allontanato l’idea che Elias fosse figlio di Johannes, e ora tutto era chiaro. Il suo aspetto mi aveva ingannato. Ma il giorno prima, in quella lotta furiosa, avevo provato che l’età di Johannes era soltanto una mia supposizione. L’avevo fissata vedendolo seppellire i suoi morti. Quel giorno era vecchissimo.
Restai e Johannes guarì in tre giorni, e in quei tre giorni si può dire che diventammo amici, o almeno questa fu la mia illusione.
La mattina del quarto giorno dopo l’arrivo di Elias, stavo sul ciglio dello spiazzo, in attesa di veder sbucare il bimbo, laggiù tra i rami della boscaglia, quando Johannes mi chiamò. Era ancora molto debole e cortesemente mi indicò la latta di petrolio vuota: voleva sottintendere che dovessi andarla a riempire, e ci andai. Ero molto agitato, quella mattina, appunto per l’attesa di Elias. Mi rimproveravo di non aver precisato con lui l’ora del suo arrivo, e così avrei trascorso la giornata ad aspettarlo, e non potevo fidarmi della sua concezione del tempo. Quattro o cinque giorni: la stessa cosa, per Elias. Anzi, quattro giorni o quattro mesi. Possedeva, sì, un orologio, ma soltanto per vanità, e per farne sentire il ticchettio ai suoi giovani amici. Sarebbe venuto, chissà quando, allegro e senza il minimo sospetto del suo ritardo. E avrebbe portato un pacchettino gualcito, oppure due sigarette, o una soltanto, infilata dietro l’orecchio. Sempre più mi stizzivo di non aver precisato nulla, lasciando decidere al suo estro. Per calmarmi, quando fui sulla riva ed ebbi riempito la latta, mi spogliai ed entrai in acqua.
Nuotai vicino alla riva e subito uscii, non volevo correre rischi proprio quel giorno, ma il bagno mi rianimò, e pensai che non dovevo giudicare Elias tanto sciocco. Mentre indugiavo a rivestirmi, a dieci metri dalla riva vidi l’acqua bollire. Un attimo dopo avevo afferrato la rivoltella e miravo al coccodrillo, perché è indubbio che si trattasse di quella bestia. Miravo, esitando a sparare, sapevo che le mie pallottole avrebbero appena scalfita la corazza del mostro e soltanto se l’avessi colpito all’occhio potevo ucciderlo. Mi tenevo pronto a fuggire e a raggiungere il sentiero, abbandonando la latta che mi sarebbe stata d’impaccio. Senonché, il ribollimento si placò e non vidi ombra di coccodrillo. “Mi sono ingannato” pensai. Poi aggiunsi che non m’ero ingannato e che forse il coccodrillo non mi aveva visto. Si sa che in acqua questi animali vedono meno bene di quando sono sulla terra ferma. Aspettai ancora e, senza osare di confessarmelo, desideravo che il coccodrillo apparisse: volevo vederlo. Certo, se fosse apparso sarei fuggito; ma volevo vederlo e non era la paura a suggerirmi questo singolare desiderio e nemmeno una scientifica curiosità, era soltanto il desiderio di vederlo e di sparargli addosso tutto il caricatore. E poi fuggire.
Cominciai a ingiuriarlo. Così, credo, i selvaggi aizzano le fiere restie. Gli dissi che si facesse vedere. Perché scappava? Voleva profittare della mia partenza (ormai fissata), per farla franca? Sapeva, dunque, che sarei partito l’indomani? Mi sarebbe piaciuto tornare da Lei con la sua pelle conciata.
Parlavo ad alta voce, dicendo queste e simili sciocchezze, eccitandomi sempre più. Poiché vidi l’acqua ribollire ancora una volta, ma forse era un gorgo momentaneo, scaricai l’arma in quella direzione, imprecando. I sette colpi sollevarono minuscoli spruzzi. Non contento, presi una grossa pietra e la lanciai in acqua. “Tieni” urlai. Dopo ciò, alquanto placato, presi la latta e risalii sullo spiazzo e ancora l’ansia per l’arrivo di Elias mi riprese. Inutile aspettare sul ciglio, tornai nella capanna circolare e mi distrassi a ricaricare l’arma. Purtroppo avevo sciupato sette colpi, ora mi restava un solo caricatore. Ma non avrei mai avuto occasione di adoperarlo, mi dicevo.
Quel giorno gli uccelli esitavano a entrare nella capanna e, se appena gridavo, uscivano senza farsi ripetere l’invito. A uno di essi che mi stava osservando con una zampetta levata e la testa di sbieco, sputai addosso e lo vidi volare come impazzito e perdersi nella paglia del soffitto, starnazzando, incapace di trovare l’uscita. “Hanno imparato a conoscermi” pensai. Il guaio è che questi indigeni non praticano la caccia e gli uccelli prendono abitudini deplorevoli e stimano che si debba sopportare in eterno le loro confidenze. “Non sono ancora morto” urlai “e chissà che non faccia in tempo a mangiarvi prima io. “ Con queste grida cercavo di placarmi. L’uccello trovò l’uscita e lasciò cadere qualcosa, che aveva certamente rubato nello zaino: un pezzo di ferro, un dado. Non potevo lasciare lo zaino aperto un minuto. Raccolsi il dado e ricordai il maggiore. Mi aveva augurato buona villeggiatura. E, in quel giuoco dei dadi, aveva vinto. Ma la villeggiatura stava volgendo al termine, ora mi lodavo della mia prudenza.
Presi il dado e lo gettai più volte a terra, fingendo di giuocare, e dicevo ad alta voce i punti. “Signor maggiore, vincerò io” conclusi, ridendo. Ma ridivenni triste quando rammentai che, pur tornando in Italia, troppi processi mi attendevano. Troppi processi, e l’ospedale. E verrebbe Lei a visitarmi? Porterebbe libri, arance, tabacco? E ogni volta una scusa per andarsene un po’ prima? Oppure non verrebbe affatto? Una solitudine vale l’altra, insomma. Sentirei borbottare i vicini di camera, invece dei cupi uccellacci. Invece di Johannes, un dottore altrettanto implacabile. Invece di Elias, che sbaglia di quattro giorni o di quattro mesi, un infermiere che non ascolta i campanelli. Invece di un Arcangelo, un prete che rappresenta le gioie del Paradiso. Invece di un fiume, una linea tranviaria.
Ero così sconfortato, quando risentii il gentile effluvio dei ciclamini. Era un effluvio quasi insignificante e discontinuo. Anzi, più annusavo e più dovevo convincermi ch’era soltanto una mia impressione. Forse verrà da questi alberi” pensai. Ma gli alberi attorno alla capanna non fiorivano, sordi a ogni primavera, e non credo che gli uccelli avrebbero gradito che fiorissero. Nel dormiveglia il profumo persisté, però svanendo man mano che le palpebre si appesantivano, e vi sentivo il sospetto di un ciclamino marcito, un solo, vecchio ciclamino marcito nel bouquet. “È giusto,” pensai “l’immaginazione mi tradisce, sono stanco, esaurito, e il languore mi rende sensibile ai minimi odori di questo villaggio. Sto acquistando il fiuto di un animale.” E risi. “Forse,” seguitai “col tempo urlerò alla luna, o sentirò una talpa sospirare a due chilometri.” Tuttavia non riuscivo a spiegarmi perché mi ostinassi a definire di ciclamino quel profumo, se non rammentavo di aver mai odorato ciclamini. “Sarà un fiore qualsiasi della boscaglia” conclusi. Sennonché, mi accorsi che il profumo persisteva soprattutto vicino allo zaino. Annusai lo zaino e allora ricordai. Lo avevo messo nel camion del maggiore e certamente il maggiore, tra l’altra merce, trasportava anche le pessime essenze tanto gradite agli indigeni, e che sulla piazza di A. vendeva il mercante. Sì, ora ricordavo che durante il viaggio da Massaua a D. quel profumo mi aveva persino stordito. Una fiala rotta, e lo zaino n’era rimasto intriso. “Tutto è spiegato” dissi. E stavo per addormentarmi, allorché vidi Johannes venire verso la capanna, correndo come glielo permetteva la sua debolezza. “È arrivato Elias” pensai. Quando fu sulla soglia Johannes, freddamente, mi annunciò che erano arrivati i carabinieri.
Aveva parlato a bassa voce e pensai che i carabinieri fossero già sullo spiazzo. Non sapevo che cosa fare. Mi levai e per prima cosa infilai la giubba, non volevo farmi trovare in quelle deplorevoli condizioni. Mi abbottonai in fretta, affibbiai il cinturone, cercai il pettine nello zaino. Soltanto allora mi ricordai di chiedere a Johannes dove si trovavano i carabinieri. Rispose che stavano salendo il sentiero della collina, perché quando lui li aveva visti ne distavano ancora trecento metri. “Imbecille” pensai. Presi lo zaino e decisi di fuggire. Improvvisamente mi ricordai del mulo. Se i carabinieri avessero trovato un mulo della Sussistenza in quel luogo, il vecchio sarebbe stato accusato di furto e per discolparsi avrebbe indicato loro la mia tana. “Il mulo” gridai. Johannes mi guardò un attimo, senza capire, poi corse verso lo spiazzo. Lo aspettavo, fremente, al bivio dei sentieri; e poco dopo il mulo arrivò trotterellando, per nulla preoccupato. Anzi, si fermò a brucare, ma Johannes gli dette un tal colpo sulla groppa che subito smise e si fece condurre all’affluente. Mentre imboccavano il sentiero, i carabinieri passavano davanti al tumulo e, tra le piante, feci in tempo a vederli. Riconobbi le loro mostrine, vidi che portavano i moschetti non a spalla ma in mano, pronti dunque a sparare. E li precedeva Elias.
“Canaglietta” dissi e imboccai il sentiero, spingendo avanti il mulo, che s’era fatto docile. Ero quasi tentato di risalire e, prima di lasciare il villaggio con i carabinieri, impartire a quel bimbo la meritata lezione. Ero stato tanto sciocco da raccomandargli di non far parola a nessuno della mia presenza al villaggio. Di modo che se non aveva capito nulla, io gli avevo fatto capire tutto. E l’avevo pregato di portarmi anche le sigarette. Ora ricordavo il suo primo rifiuto, e poi lo sguardo severo con cui mi aveva esaminato, giù nel sentiero della boscaglia, e infine la decisione che io gli avevo suggerito, di tornare. Aveva contato i giorni con le dita, sul naso, proprio come il vecchio. E io avevo atteso, pieno di fiducia in quel bimbo, che, già andandosene, meditava di tradirmi. Non s’era dimenticato, Elias, il mio ceffone nella tenda e anche lui voleva la sua parte di vendetta, la peggiore. “Per fortuna,” pensavo “c’è Johannes. Se ha perdonato e la sua amicizia di questi giorni è sincera, farà di tutto per salvarmi. Ma posso fidarmi di Johannes, terzo membro della congiura e con la fronte ancora fasciata per colpa mia?”
Decisi che avrei attraversato l’affluente, inoltrandomi nella boscaglia, verso le montagne. Avrei pernottato nella boscaglia e l’indomani avrei seguito il sentiero sino ad A. I carabinieri avrebbero finito col non tenere in nessun conto le parole del bimbo, se il vecchio le avesse smentite. Sarebbero tornati sull’altopiano, perché non è affatto piacevole girovagare nella boscaglia.
Giunto sulla riva, saltai in groppa al mulo e lo spinsi in acqua. Stentava a muoversi. Entrò con le zampe posteriori e subito si ritrasse. Non potevo incitarlo, né bastonarlo, temendo che nitrisse, e dovetti scendere. Il corso d’acqua non era molto largo e, in poche bracciate, avrei raggiunto l’altra riva. Dovevo portarmi lo zaino, non sapendo che cosa avrebbe fatto il mulo. Ero talmente agitato, dovevo far presto, che non feci caso al nervosismo della bestia. Scalciava, si ritirava, non voleva saperne di entrare in acqua. In quel momento non pensavo affatto al coccodrillo, invano l’avevo provocato e m’era uscito di mente, lo ritenevo immaginario o docile come quello della pittura. Spinsi ancora il mulo ed egli fece un rapido balzo indietro.
Ora, sulla riva, non più lungo di cinque palmi, forse meno c’era un coccodrillo. Era un coccodrillo giovanissimo, suppongo, ma non mi sono mai chiesto, dopo, quanti mesi o quanti anni avesse. Era di un color verdolino putrido, bianchiccio e giallo in alcuni punti, sui fianchi. Stava sulla riva, immobile, la punta della coda nell’acqua, quasi volesse sincerarsi della giusta temperatura. Ci guardava, lo guardavamo, e nessuno di noi tre si muoveva.
Era appena a due metri da noi, immobile. Mentre prendevo la mira, mi rammentai dei carabinieri, là sullo spiazzo. Tenni la rivoltella nella mano e non sparai.
Il mulo agitava la coda, dove tutto il suo terrore sembrava essersi rifugiato; e il suo labbro superiore fremeva appena. Guardava fisso quella bestia sconosciuta, sconvolto da una paura quasi umana e non si sarebbe mosso di lì finché non avesse capito. Anch’io non osavo muovermi, stavamo così immobili, aspettando. Che cosa? Che cosa stavamo aspettando? Pensai che stavamo aspettando il padre o la madre della bestia.
Bisognava andarsene. Non osavo staccare lo sguardo dal coccodrillo. Con la coda dell’occhio attorno, pronto anche al minimo fruscio. Se fosse apparso il grande coccodrillo, il vecchissimo, quello che sapeva tutto sulla valle e anche un poco la storia del mondo, non avremmo avuto scampo. Forse il mulo sarebbe fuggito. Forse io sarei rimasto là, inchiodato dal terrore. Poteva anche non venire dall’acqua ma dalla riva e chiudere il cerchio. Allora, se avessi trovato la forza di muovermi, e di ciò dubitavo, avrei dovuto gettarmi in acqua, il più lontano possibile dal giovane coccodrillo e raggiungere l’altra riva. E il giovane coccodrillo non si sarebbe gettato all’inseguimento, solo per curiosità, o per giocare? Una volta in acqua, chi avrebbe resistito ai suoi teneri denti? Avrei osato toccarlo, quel mostriciattolo viscido e corazzato?
Non ci muovevamo. Il coccodrillo teneva immobile persino l’estremità della coda, cosa che al mulo non riusciva. E adesso capivo di chi erano quelle peste regolari, come fatte da un erpice. Erano sue, usava dunque avventurarsi spesso su quella riva, la sua tana non distava molto, quindi anche i suoi parenti erano nei pressi.
Se il mulo avesse nitrito? Forse il coccodrillo si sarebbe mosso, e allora dovevo fare qualcosa. Non so quanto tempo restammo là, immobili, a guardarci. E finalmente il coccodrillo si mosse, avanzò nella mia direzione e si fermò, sollevando la testa, a due passi.
Muoveva la testa lentamente, preso da una stanca curiosità. Non mi supponeva nemico. Potevo vedere bene i suoi dentini aguzzi, le lunghe mascelle che si chiudevano a tratti col rumore secco e regolare di una serratura ben costruita. Stava fermo (e nemmeno il mulo aveva osato muoversi), e i suoi fianchi immondi palpitavano. Forse si chiedeva anche lui il perché di quell’attesa. Suppongo persino (non conosco le abitudini di simili bestie e non vorrò più conoscerle, ormai), suppongo persino che intendesse giuocare. Se gli avessi porta la mano me l’avrebbe staccata, ma solo per giocare. Era giovanissimo, il fiume non gli aveva insegnato ancora nulla, ed ero io il primo uomo che vedeva. Forse la mia altezza cominciava a insospettirlo. Tutte queste considerazioni potei farle dopo, in quel momento io ero affascinato dal mostro e soltanto desideroso di liberarmene. Le agitazioni della mattina mi avevano profondamente scosso, dandomi un’energia nuova, nervosa. Allora, vedendo quel fiducioso dragone che non si avventava ai miei polpacci, mi dissi che dovevo agire subito, senza perdere tempo. Stava sempre immobile, il coccodrillo, e muoveva appena le mascelle, ma i suoi occhi non mi abbandonavano un istante, né io osavo staccare il mio sguardo dal suo, temendo di rompere la tregua.
“La sua curiosità” pensavo “non sarà sempre contemplativa. Devo agire, ma come?” Fu il coccodrillo stesso a suggerirmi, sollevando la testa. Forse voleva partire all’attacco. Ma sollevò la testa. Feci due passi indietro, senza mai staccargli lo sguardo di dosso, e partii.
La bestia ricevette quel terribile calcio sotto la mascella inferiore. Fece perno sulla coda, descrisse un rapido semicerchio e batté la schiena nell’acqua. Per un attimo vidi il suo ventre teso nello sforzo, bianchiccio, venato di putridi colori, e le sue zampe rattrappite. Poi scomparve nella schiuma, girò, forse stordita o soltanto sorpresa, e si allontanò sott’acqua, nuotando.
Se ne andava. Sorpreso anch’io della sua fuga, caddi a sedere sulla riva, incapace di coordinare le idee. Cominciai a massaggiarmi la caviglia e parlavo ad alta voce, non mi accorsi nemmeno di Elias che scendeva il sentiero, chiamandomi. Mi faceva rapidi cenni d’intesa. Quando mi fu vicino disse che i carabinieri erano andati via, potevo risalire.
Ora, quanto seguì in quella giornata è presto detto. Tornato sullo spiazzo, Elias aprì il tascapane e ne trasse sigarette, scatole di frutta e di carne. La prima inebriante sigaretta mi fece persino dimenticare di chiedere a Johannes perché erano venuti i carabinieri. Lo seppi più tardi, erano venuti attratti da certi spari. Ero io che avevo sparato: all’immaginario coccodrillo. S’erano imbattuti in Elias e avevano voluto accompagnarlo, messi in sospetto da quel bimbo troppo agghindato e con tanta roba nel tascapane. Ma Elias aveva saputo tacere e il vecchio s’era comportato anche meglio. Il suo certificato di pensione era stato letto e ammirato.
La mattina dopo, all’alba, m’accingevo a lasciare il villaggio. M’ero talmente rincuorato che avevo deciso di tentare, anche se la strada per Massaua era molta. Quando salutai Johannes ero convinto che sarei partito, ma forse ebbi il torto di chiedergli che cosa voleva che gli lasciassi per mio ricordo. Johannes, restituendomi il denaro, indicò l’orologio e disse: “Questo”. Gli occhi di Johannes non si staccavano dai miei e, più del mio pallore, dovette tradirmi il gesto istintivo che feci di nascondere l’orologio: quell’orologio che la donna tornando al villaggio aveva certo mostrato. Quando potei parlare, dissi: “Andiamo”. E lo lasciai solo davanti alla tomba di Mariam. E io non partii.
Non partii perché Johannes aveva ammesso l’esistenza di Mariam; e ora avrebbe parlato di Mariam, e avrebbe detto se la mia debole speranza era o no infondata. Quando, il giorno dopo (per quel giorno non vidi più Johannes), gli chiesi ciò che volevo sapere, il vecchio rispose. Gli mostrai le mie piaghe e allora scosse il capo. Le guardò a lungo. La sera stessa mi applicava il primo disgustoso impiastro sul ventre e sulla mano. Io lo ricevetti singhiozzando ma senza crederci, non era possibile, non poteva essere vero che sarei guarito. Singhiozzai al punto da restare stordito nella capanna (nella capanna migliore di tutte), sino all’alba.
La mattina del quarantunesimo giorno presi la scorciatoia per l’altopiano, andavo a costituirmi. Inutile nascondersi, ormai. Le piaghe stavano guarendo, Johannes non mi aveva ingannato. Eppure, la prima figura del libretto era la mia mano.
Passando davanti alla tomba di Mariam, vidi che era coperta da una tettoia di paglia. La sorreggevano i pali che il vecchio aveva tagliato con tanta ostinazione.